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Una definizione di cultura.
3. Rituali sciamanici
19 marzo 2007
Vorrei presentare alcuni esempi dell’intersezione tra soggetto e trasmissione filogenetica: Il primo esempio utilizza un materiale tratto da ricerche antropologiche relative ad una popolazione che io stessa ho studiato in una ricerca sul campo condotta nel 1980.
Lévi-Strauss ha definito la sua teoria sull’efficacia simbolica presentando un canto usato dagli sciamani cuna per guarire le difficoltà di parto. I Cuna sono una popolazione di indios che vive in una regione autonoma dello stato di Panamà, famosi tra gli antropologi per la ricchezza del loro patrimonio mitico e rituale.
Il canto presentato riferisce di un mito in base al quale Muu, la divinità responsabile della formazione fetale e della nascita, si è impadronita di una purba, il doppio spirituale della partoriente; il canto ne descrive la complicata ricerca ripercorrendo uno schema classico: ci si ammala perché si perde un doppio spirituale, allora lo sciamano compie un viaggio nel mondo soprannaturale per ritrovarlo e porre fine allo squilibrio tra forze vitali.
L’interesse del testo risiede secondo l’autore nella scoperta che il viaggio mitico si svolge all’interno della malata, dentro tutte le purba, quelle del cuore, le ossa, i denti, i capelli.
La via di Muu è la vagina; la sua casa, la “profonda, scura sorgente” é l’utero, la penetrazione all’interno compiuta dallo sciamano e dagli spiriti protettori avviene in analogia ad un amplesso.
Qui giunti, essi descrivono una vera anatomia mitica ed una geografia affettiva del corpo. Appare un mondo popolato da animali fantastici e feroci che personificherebbero le doglie; cosparso di ostacoli, fili tesi, sipari colorati, fibre, ovvero le mucose uterine attraverso le quali si svolge il difficile cammino del feto lungo il canale del parto.
Il canto appare a Levi-Strauss una terapia psicologica rivolta direttamente all’organo malato, al corpo; i criteri di funzionamento sarebbero deducibili dal carattere specifico del testo, fortemente incentrato su quanto precede la cura vera e propria, come per attirare l’attenzione della malata verso la situazione iniziale, affinché essa la possa rivivere.
Il teatro immaginario è il corpo al cui interno il riferimento al mito trasfigura il dolore e le continue oscillazioni tra un mondo fisico e uno mitico renderebbero pensabile un’esperienza precedentemente vissuta solo in termini emotivi; “Lo sciamano fornisce alla sua ammalata un linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili. E proprio il passaggio a questa espressione verbale (che permette nello stesso tempo di vivere in forma ordinata e intelligibile un’esperienza attuale, ma che sarebbe, senza quel passaggio, anarchica e ineffabile) provoca lo sbloccarsi del processo fisiologico, ossia la riorganizzazione, in un senso favorevole, della sequenza di cui la malata subisce lo svolgimento". 1
Nel saggio, la cura sciamanica viene confrontata a quella psicoanalitica: ambedue appaiono volte a rendere coscienti conflitti e resistenze inconsce, eliminati non dalla conoscenza razionale loro imposta, bensì dall’abreazione.
Sciamano e psicoanalista, il primo parlando, il secondo tacendo, entrano in contatto diretto con la coscienza e indiretto con l’inconscio del malato. Il transfert attivato dalle due figure permetterebbe di rivivere nell’attuale un’esperienza originaria non formulata. Processi organici e psichismo inconscio trovano un terreno comune nella definizione di efficacia simbolica, una “proprietà induttrice” di trasformazioni.
Essa agirebbe al livello in cui le leggi del corpo e della mente si sovrappongono facendo leva sul patrimonio di forme mitiche personali e collettive. Dunque, ogni gesto dotato di senso, ogni produzione simbolica, mitica, rituale o terapeutica possono essere interpretati come atti volti a generare trasformazioni, individuali o collettive.
In una prospettiva in cui la trasformazione è sempre associata a qualcosa di positivo, l’idea originaria di abreazione si é sganciata dal contesto clinico che l’aveva generata e circoscritta all’interno di un insieme di fatti psichici. Essa è divenuta un concetto vago, capace di dilatarsi a comprendere fatti diversi, come l’agire del corpo e della mente, dell’individuo e del gruppo.
Quando Freud studiando l’isteria scoprì l’abreazione, la considerò una possibilità di scaricare un affetto inespresso legato ad un evento traumatico. Una modalità normale di reagire ad una crisi, in modo spontaneo o provocato dalla psicoterapia. Inizialmente l’abreazione era ritenuta così importante da dare il nome al metodo di cura, detto appunto catartico. Tuttavia, pur riservandole un ruolo non secondario, Freud la collocò ben presto in una rete di fenomeni complessi, quali il transfert, la ripetizione, l’elaborazione psichica.
Dunque, per Freud l’abreazione entra in gioco allorquando una forte carica affettiva connessa a un trauma riesce a liberarsi e defluire. In questo senso, il discorso non è lontano da quello di Lévi-Strauss, quando egli parla di esperienze non formulabili, ma la comprensione dei traumi ha permesso di chiarirne con maggiore precisione la natura.
Il loro carattere patogeno risiede nella rottura dei sistemi difensivi prodotta dall’evento. Tale rottura comporta una fuoriuscita incontrollata di materiale inconscio che destabilizza l’equilibrio psichico.
Il vero trauma è pertanto interno, e il problema terapeutico diviene l’individuazione di un percorso associativo che consenta il riavvicinamento al nucleo inconscio messo a nudo dal trauma. Invece l’efficacia simbolica, orientata verso il dolore o la malattia del corpo, fa pensare che il trauma sia esterno, mentre resta indifferenziata la descrizione di quel linguaggio capace di dare un senso all’inesprimibile.
Nel lavoro di ricerca abbiamo tuttavia constatato che lo sciamano parla una lingua sconosciuta alla gente del villaggio e dunque nessun canto può avere la funzione di porgere direttamente al malato un contenitore simbolico in cui rielaborare il proprio vissuto perturbato; cosa fa allora il rito?
Una risposta si trova in un saggio, nel quale Carlo Severi riflettendo sull’efficacia rituale studia un processo proiettivo, particolarmente frequente nell’arte preistorica e primitiva, in base al quale si creano delle immagini, iconiche o comportamentali, capaci di evocare anche ciò che non contengono e si limitano soltanto a suggerire. 2
Il processo richiede la presenza di un’area vuota, adatta a divenire lo schermo delle proiezioni, il cui esempio più semplice sono i quattro punti neri che, in assenza di altri riferimenti percettivi, suggeriscono sul foglio bianco la forma del quadrato.
Il canto cuna, come moltissimi altri rituali, ha uno spazio lasciato vuoto dalla estraneità della lingua e dalla monotonia melodica. Si può affermare anzi, che la caratteristica precipua dei riti ed in generale dei miti e delle credenze, é precisamente la loro vaghezza in alcuni punti della enunciazione; l’elemento che li caratterizza non sarebbe perciò la fiducia “magica” ed irrazionale nell’agire di potenze superiori, bensì un alto grado di indecisione e descrizioni sfumate: “dicono che ... ma io non ho mai visto”, “tanto tanto tempo fa”, “loro pensano che esista un ...”.
E’ precisamente il carattere vago e incerto ciò che consente a ciascuno di proiettare sulla scena rituale o nel racconto mitico, qualcosa che nel testo non c’era.
L’elemento cruciale della parola rituale non è più il discorso, bensì la generazione di una illusione percettiva guidata. Nel farsi del rito, il cui sommario svolgimento mitico e gestuale tutti conoscono, la comparsa della zona opaca prodotta dalle parole prive di senso consentirebbe al paziente di generare quello spazio vuoto sul quale si proietta l’esperienza del dolore: “Un canto, che racconta una storia stereotipica – la stessa per tutti – diviene così un’immagine sorprendentemente fedele, dell’esperienza, e della storia segreta del paziente. E ciò semplicemente perché è il paziente stesso a costruire per sé la propria efficacia simbolica, a prestare la propria parte al canto enunciato dal terapeuta. A renderlo, insieme, parola-immagine dell’uno e dell’altro”. 3
Quindi, nuovamente, ed anche dal punto di vista della trasmissione culturale, l’elemento portante del processo non sta nei contenuti, come altri hanno sostenuto, nemmeno allorché essi siano trasformati in simboli, archetipi, imago, eccetera.
Quel che rende omogenea la cultura di un gruppo umano è l’insieme condiviso dei sistemi difensivi, ovvero delle catene specializzate rappresentazionali-affettive nel loro agire come inibitori o propulsori di certi destini pulsionali, certi desideri e certi fantasmi. In questo caso la descrizione della rottura traumatica della fusionalità intrauterina come elemento dinamico propulsore capace di attivare il parto e dunque la nascita, attraverso la presenza di un pene-sciamano che entrando nella vagina-utero spezza l’omeostasi e conduce il bambino fuori dalla madre.
Questo tema, che potrebbe essere il contenuto manifesto di un fantasma inconscio, non é ciò che caratterizza il rituale cuna; esso, come tutti i fantasmi, é pressoché universalmente presente.
La caratterizzazione culturale, nell’esempio cuna, risiederebbe nel tentativo di risolvere una specifica situazione, la difficoltà del parto, riattivando nel rito quello specifico fantasma. Forse perché questa é una cultura che potremmo definire a fissazione iniziatico-anale, come si comprende da altri dati che non ho il tempo di presentare. Tale fissazione seleziona lungo le generazioni le catene specializzate di rappresentazioni ed affetti di cui ho parlato in precedenza.
Per mostrare uno dei punti dove la realtà psichica soggettiva si incontra con il dinamismo della trasmissione filogenetica, ho descritto un rituale che costruisce uno spazio percettivo vuoto, attraverso degli stimoli privi di senso, come una lingua sconosciuta, o la monotonia di un canto. Questo spazio diviene il supporto fisico di un’esperienza psichica particolare, resa soggettiva dalle proiezioni-identificazioni. Un’esperienza in cui il soggetto lascia parlare le Immagini filogenetiche.
E’ un tema capace di spingersi lontano, a raggiungere la spazio analitico, già evocato dalle parole di Lévi-Strauss, e ora più familiare. Viene in mente un’altra situazione capace di generare e contenere le proiezioni: il transfert, la relazione che, proprio perché non è un rapporto nel senso sociale del termine, lascia, a partire da alcuni, pochi, elementi chiaramente percepibili, ampio margine alla produzione inconscia, alla ripetizione di esperienze non ancora elaborate.
In termini micropsicoanalitici si può definire il transfert come una sinapsi psichica, ovvero uno spazio vuoto generato dalla neutralità del micropsicoanalista, in cui i vissuti aggressivo-sessuali dell’analizzato sono riattualizzati.
Questa mi sembra la vera differenza tra il transfert analitico e gli altri tipi di transfert sociali, tutti basati su una dinamica di reciproche proiezioni-identificazioni. Nel caso del rituale in oggetto, tuttavia, lo spazio relazionale è sufficientemente vuoto da attivare una qualche forma di elaborazione.
L’attività psichica implicata dovrebbe essere l’elaborazione primaria, vale a dire un rimaneggiamento dei contenuti inconsci che cerca di regolare i conflitti psichici. Il termine usato da Freud letteralmente significa: lavoro psichico, in analogia al lavoro del sogno che consiste nel processo in base al quale stimoli somatici, resti diurni, tensioni psichiche, contenuti inconsci vengono trasformati in un contenuto manifesto, ovvero il sogno stesso.
Le leggi di quel processo sono le leggi dell’inconscio, in base ad esse si costituiscono gruppi associativiche tendono a mantenersi stabili.Qualcosa di molto più arcaico della elaborazione terapeutica, fondata invece su processi preconsci e consci, in particolare, secondo Freud, sul superamento delle resistenze e quindi sulla conoscenza dei moti rimossi che le alimentavano.
I processi trasformativi descritti da Lévi-Strauss e Severi, fondati sulla relazione tra lo sciamano e il malato, attivati dalla creazione di uno spazio immaginario capace di contenere i vissuti, potrebbero mettere in funzione l’elaborazione primaria.
L’ipotesi permette di spiegare come certi rituali attivino potenti abreazioni e anche perché essi possano fallire: di per sé la modificazione degli investimenti inconsci non garantisce un equilibrio migliore e una diminuzione dei conflitti. Può succedere ma non succede sempre e, soprattutto, il conflitto tenderà a ripresentarsi in forma diversa, secondo l’agire della coazione a ripetere.
La differenza tra i riti di guarigione e l’esperienza analitica sembra risiedere nello sforzo operato in quest’ultima di vincolare l’elaborazione primaria suscitata dal transfert e dalle rievocazioni ad un processo elaborativo secondario che attenui le ripetizioni rinforzando le catene associative dell’Io.
© Manuela Tartari
Note:
1 C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, 1958, tr. it. Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1966, pag. 222.
2 C. Severi, “Un altro chiamare. Terapia e comunicazione rituale”, in: G. Roy, La bellezza dell’invisibile. L’ombra poetica del sintomo”, Franco Angeli, Firenze, 1998.
3 C. Severi, “Un altro chiamare. Terapia e comunicazione rituale”, op. cit. .
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