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Scienza e Psicoanalisi
 INFANZIA
Infanzia e Adolescenza
Articolo di Daniela Marenco  
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Gioco e ripetizione

1 novembre 2000

Molto è stato scritto sulla funzione del gioco, sulla sua importanza primaria nello sviluppo affettivo ed intellettivo del bambino. Se osserviamo i giochi di un bambino, soprattutto in età prescolare, possiamo facilmente notare come, per un certo periodo di tempo, il piccolo tenda ad “affezionarsi” ad un particolare gioco e lo ripeta o, per lo meno, ne ripeta lo schema essenziale, pur aggiungendoci di volta in volta delle varianti.
Piaget dimostrò come la ripetizione sia necessaria ai processi cognitivi permettendo la messa in atto di accomodamenti ed assimilazioni successivi che portano alla costruzione o alla assunzione di un concetto, una realtà.
Freud , con il caso del piccolo Hans, mise in luce come le fantasticherie, i sogni, i giochi del suo piccolo analizzato non fossero che una ripetizione, una messa in scena, a livello onirico e ludico, del conflitto edipico.
Nel 1920 analizzando la coazione a ripetere, illustrò il meccanismo universale della ripetizione attraverso un gioco infantile, gioco che divenne un esempio paradigmatico dell’azione della coazione a ripetere nella vita psichica: il gioco del rocchetto.
Freud notò come un suo nipotino di 18 mesi si intrattenesse a lungo con un gioco particolare: prendeva un rocchetto e lo lanciava lontano facendolo sparire sotto il letto, il tutto era accompagnato da esclamazioni vocali connotate da intensa affettività. Il gioco pareva ripetere, in una sorta di drammatizzazione affettivo-motoria, una serie di esperienze altrettanto emotivamente intense: le partenze della madre, vale a dire l’esperienza di separazione. Un giorno Freud notò come questo gioco facesse parte di uno più complesso: il piccolo tirava il rocchetto, lo faceva sparire, poi lo recuperava. Il gioco completo appariva raramente, la prima parte sembrava bastare a sé.
Perché ripetere, riproporre un’esperienza dolorosa?
Secondo Freud è la coazione a ripetere che spingeva il bambino a giocare. La spinta a ripetere per elaborare psichicamente, impadronirsi di un evento che ha suscitato una forte impressione emotiva è primaria ed indipendente dal principio del piacere. Il tentativo sotteso è la ripetizione del trauma per cercare di eliminarlo.
Se nel gioco la ripetizione può permettere al bambino di assumere una parte attiva nell’esperienza, tentando così di dominare le forti impressioni rivissute nel gioco più di quanto può fare nella realtà, dove spesso esse sono vissute passivamente, nella vita la coazione a ripetere si esaurisce in sé, portando l’individuo a riproporre in vari contesti l’esperienza traumatica, rivivendo e riattualizzando senza posa il trauma.
In altre parole si tende ad instaurare con l’oggetto attuale (persona o situazione) una relazione tale da replicare interamente o per alcuni aspetti l’esperienza o la serie di esperienze traumatiche fissate nell’inconscio. L’oggetto attuale diventa il corpo – supporto di un’immagine riguardante un legame con l’oggetto primario. Tutto ciò avviene ovviamente al livello inconscio, l’individuo non è consapevole né della spinta che lo porta a replicare né del contenuto della ripetizione, così come il nipote di Freud non era consapevole del perché del gioco, né della spinta a farlo.
Molti giochi, soprattutto in psicoterapia infantile, sembrano presentare le caratteristiche del gioco del rocchetto. Essi nascono dal bisogno di ripetere l’esperienza o le esperienze traumatiche nel tentativo di abreagirne e neutralizzarne l’energia.
Vorrei concludere con un esempio, tratto dalla letteratura, sulla coazione a ripetere messa in atto nel gioco (Klein, 1926). Si tratta di Trudy, una bimba di 4 anni, affetta da pavor nocturnus. In seduta la piccola giocava spesso ad “andare a dormire”. Dopo essere andata “nella sua stanza” Trudy usciva furtivamente, si avvicinava all’analista e le proferiva ogni sorta di minacce, riguardanti aggressioni su di lei e i suoi bambini (ovviamente immaginari). Dopo prendeva i cuscini, che chiamava spesso i suoi bambini, e coprendosi con questi si rannicchiava in un angolo del divano dando segni di violenta paura: si succhiava il pollice facendosi pipì addosso. Klein osserva come le posizioni assunte dalla bimba corrispondevano al suo modo di stare nel lettino ai due anni, periodo in cui erano apparsi per la prima volta i terrori notturni. A quell’epoca correva in piena notte in camera dei genitori senza sapere dire neppure cosa volesse. Era appunto in quel periodo che era nata la sorella, questo evento aveva catalizzato su di sé una serie di desideri anali-uretrali, relativi ad un Edipo precoce: desiderio di depredare la madre dei suoi bambini fuso e confuso con desideri anali ed uretrali di possedere e distruggere tramite l’urina e le feci. Nel transfert e nel gioco la situazione viene replicata sull’analista, prima distrutta e posseduta, quindi intensamente temuta.
Klein nota come nel periodo in cui il gioco si manifestava più intensamente, la piccola prima di arrivare in seduta si faceva sempre male. Piccoli incidenti di disattenzione, interpretati dall’analista come atti mancati per senso di colpa.
La ripetizione nel gioco, il ripetere nel transfert (e fuori) il conflitto traumatico, diede voce all’angoscia muta del pavor, la piccola prese coscienza dei desideri rimossi, il sintomo perse la sua funzione e fu eliminato.

© Daniela Marenco

     
 

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