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Scienza e Psicoanalisi
 INFANZIA
Infanzia e Adolescenza
Articolo di Daniela Marenco  
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I comportamenti autodistruttivi in adolescenza

15 gennaio 2001

L’appetenza alla morte sotto forma di sfida, l’attrazione del giovane per il rischio sono frasi che troviamo spesso a commento di fatti di cronaca come “le stragi del sabato sera” o ai suicidi per insuccessi scolastici o per altri motivi perturbanti per la loro apparente incongruità rispetto all’atto.
Alcuni dati possono illuminare sulla drammaticità del fenomeno: l’aumento del tentato suicidio in età evolutiva ha spinto gli Stati Uniti, nel 1989, a dichiararlo problema nazionale di salute mentale. Negli USA nel 1930, tra i giovani dai 14 ai 24 anni, il tasso di suicidio era del 4,5 per 100.000, nel 1990 si è triplicato raggiungendo il 13,2 per 100.000. Una recente indagine statunitense ha messo in luce come l’8% degli studenti delle scuole medie superiori abbia messo in atto un tentativo anticonservativo.1

La percentuale aumenta se si considerano alcuni comportamenti rischiosi come equivalenti di tentati suicidi: essi appaiono caratterizzati da un flirt con la morte, una sfida a misurarsi con essa. Si tratta di situazioni pericolose che sono attivamente ricercate ed esibite: guida veloce ed in stato alterato, sport estremi praticati senza la preparazione necessaria, comportamenti tossicomanici a scopo suicidario.
Ladame (1993) vede il suicidio come un passaggio all’atto in un individuo che, in quel momento, è su un registro psicotico. Il momento è puntuale e può durare anche solo pochi secondi o minuti.
Interessante è la ridefinizione di questo autore dell’acting out (passaggio all’atto). Nella letteratura psicoanalitica esso viene considerato come un deficit di pensiero, un’assenza di rappresentazione. Ladame afferma: “Questo può essere vero in molti casi ma in altri è vero il contrario, vi è un eccesso di senso”2
Descrive quindi due casi nei quali l’atto anticonservativo nasceva come tentativi di negare una situazione attuale le cui caratteristiche avevano massicciamente riattivato vissuti traumatici rimossi relativi a fantasmi incestuosi e fantasie di parricidio. L’atto diventava nel medesimo tempo un tentativo di fuga dal desiderio ed una sua attuazione.
Per Ladame il suicidio è un acting out autodistruttivo che replica un trauma. Blos, vede nel trauma di origine infantile, il requisito preliminare per l’acting out. Riprendendo Fenichel, lo definisce una “forma particolare di ricordo”.3
Caratterizzato da un’incompleta simbolizzazione che sostituirebbe o ritarderebbe l’azione, esso pare funzionare utilizzando modalità estremamente arcaiche di risoluzione di problemi: le modalità preverbali. L’azione sarebbe il solo mezzo per venire a patti con un passato pressante e non assimilabile. Il trauma non è rappresentato attraverso un sintomo, simbolizzato in una condotta ma replicato con tutta la sua forza attraverso l’azione.
L’acting out è quindi una ripresentazione senso motoria del trauma, la trascrizione simbolica è carente o del tutto assente, comunque non è necessaria affinché, a questo livello, la ripetizione si compia. Ecco perché Ladame può definire il tentato suicidio come ricerca di unione narcisistica indifferenziata con l’oggetto in una relazione arcaica in cui oggetto e soggetto non sono ancora differenziati ma un tutt’uno onnipotente (regressione alla fase orale o addirittura alla fase iniziatica intrauterina).
N. Peluffo (1991) ipotizza che alcuni comportamenti incomprensibili e perturbanti (tra cui possono essere inseriti gli acting out autodistruttivi) non si spiegano e non si esauriscono con l’analisi delle sole vicende ontogenetiche. Tali comportamenti hanno origine da un trauma ma, in alcuni casi, si tratta di situazioni traumatiche di origine filogenetica. Secondo l’autore l’impatto traumatico è stato di tal forza da non poter essere abreagito ed elaborato in una sola generazione. Sotto forma di tensione energetica, esso viene trasmesso alle generazioni successive, inserito nel destino individuale senza essere stato ontogeneticamente esperito.
Ciò che si eredita è una configurazione vettoriale, una traccia energetica, una struttura tensionale che tende a replicarsi, riattualizzandosi.
Di questo trauma non vi è ricordo, né necessita di simbolizzazione: è solo una configurazione energetica che stimola, per esigenze di omeostasi, la ripetizione tramite il sogno e l’azione.4

Peluffo chiama questa situazione perturbante “inesprimibile genealogico”.
La micropsicoanalisi attraverso la sua metodologia e in particolare con l’uso di un particolare supporto tecnico, lo studio dell’albero genealogico, affronta l’inesprimibile genealogico. Lo studio degli antenati ed in particolare la scoperta e la presa di coscienza delle ripetizioni nelle varie generazioni dell’atto o degli atti incomprensibili e perturbanti, permette all’individuo di dare un significato al suo agire, di trarre dal passato un significato, un’elaborazione simbolica della sua pena.
L’autore parla di passaggio da processo primario a processo secondario; si può anche pensare ad un passaggio da rappresentazione di cosa (funzionamento percettivo motorio) a rappresentazione di parola (pensiero simbolico). A questo punto l’agire non è più necessario e la tendenza coatta all’actin out perde la sua forza.

© Daniela Marenco

NOTE:

1 Rigon, Poggioli, Suicidio e tentato suicidio nell’infanzia e nell’adolescenza. Commenti sulla più recente letteratura, in Imago, 1997, II, 141-166 back
2 Ladame, Paradossi del suicidio degli adolescenti, in Imago, Vol. I, N. I, pag. 25,1993. back
3 P. Blos, L’adolescenza come fase di transizione”, Armando editore, 1988, Roma. back
4 N. Peluffo, Il comportamento incomprensibile dell’adolescente come manifestazione attuale dell’Immagine filogenetica”, in Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi, N. 10, 1991, Tirrenia Stampatori. back

     
 

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