La Psicologia a Tavola.
"Mangio quel che sono" influenze psico-sociali sul comportamento alimentare
25 settembre 2008
Oltre ad essere fonte di sostentamento, il cibo allevia dalla quotidianità, imponendo dei ritmi di sospensione temporale, fino a strutturare l'intera esistenza ed instaurare così una relazione profonda con chi ne fruisce; la sua scelta procura importanti conseguenze sulla salute e la forma fisica, e ciò giunge persino a fornire un espediente per rappresentarci nei rapporti interpersonali.
Ogni organismo pensante interagisce con il suo ambiente e la presenza effettiva, immaginata, o implicita, degli altri influenza il comportamento dei singoli. Il modo in cui le persone attribuiscono significati alle situazioni sociali ne rappresenta la cognizione sociale. Ed una comprensione della scelta alimentare non può non tenere conto delle cognizioni che intervengono nel percepire i cibi e nel fruirne.
Il nostro ambiente socio-culturale e la nostra interazione con il prossimo finiscono per influenzare sia direttamente sia indirettamente, sia esplicitamente sia implicitamente, sia in maniera consapevole sia con modalità inconsce, la scelta degli alimenti e la quantità da ingerirne.
Ognuno di noi fornisce una spiegazione dei propri ed altrui comportamenti, interpretandoli a suo modo, secondo una specifica percezione interpersonale e, nello stesso tempo, presenta se stesso seguendo un'autoregolazione indipendente, percorrendo processi mentali attraverso i quali si elaborano le concezioni di sé e si riformulano le condotte che abbiano impatto sull'ambiente circostante, allo scopo di ottenere dei risultati adeguati agli obiettivi di partenza. Le scelte alimentari rientrano in questa forma di auto-rappresentazione della propria immagine. Si tratta di un percorso che richiede una fase motivazionale di ponderazione degli incentivi e delle aspettative, al fine di scegliere le azioni richieste dagli obiettivi prefissati. Una volta individuata la meta da raggiungere, subentra la fase volitiva con la pianificazione del programma di attivazione. Una qualche forma di controllo del peso, ad esempio, costituisce un obiettivo rilevante.
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Nei consumi alimentari esistono delle variazioni socio-demografiche. Indirizzare gli interventi sulle variabili che spiegano le relazioni tra tali fattori socio-demografici ed i comportamenti potrebbe, in un certo qual modo, facilitare il cambiamento nel regime alimentare, ma sembra che gli effetti sperati non vadano oltre le intenzioni, senza intaccare le scelte reali. Difatti all'auto-percezione si riconnette solo in parte una misura più oggettiva del comportamento, forse per la difficoltà pratica di valutare con oculatezza il preciso contenuto di calorie o di grassi, ecc. Allorquando interrogati in proposito, tendono tutti a fornire risposte in sintonia con un ideale socialmente accettabile. Si cerca cioè di presentare di sé un'immagine positiva, inevitabilmente sovrastimando il grado in cui mangiano in modo sano. La mancanza di corrispondenza tra misure oggettive e soggettive nei comportamenti dietetici cozza con il principio di corrispondenza tra una misura soggettiva di intenzione ed una più oggettiva di comportamento. Questa indubbia violazione potrebbe venire risolta dal modello teorico del "provare", in cui le influenze sulla decisione di provare, appunto, vengono più strettamente legate all'azione di provare effettivamente a raggiungere un determinato obiettivo. Volontarie strategie pratiche, quali le intenzioni di implementazione, assicurano una discrepanza minore tra cognizioni ed azioni, tanto che le intenzioni di implementazione si rivelano semmai un utile strumento di promozione dell'alimentazione salutare.
Le proprietà dei cibi ne influenzano il consumo e questa scelta si ripercuote sulla salute. Fisiologicamente si cerca di mantenere un equilibrio mediante il controllo del peso e promuovendo la varietà della dieta, secondo un meccanismo di retroazione. L'organismo, insomma, deve bilanciare l'apporto di calorie e quello di diverse categorie di sostanze nutritive. E' la riserva di lipidi corporei ad attivare l'azione di nutrirsi, destinata a cessare grazie ad un meccanismo a cascata (satiety cascade) a cui partecipano una sazietà sensoriale specifica, processi cognitivi, processi post-ingestione e post-assorbimento.
Il potere saziante, che limita la quantità totale del pasto, esprime genericamente la funzione di sopprimere le sensazioni di appetito, eliminando così il desiderio di continuare ad ingurgitare indistintamente. L'apprendimento delle caratteristiche sensoriali, dei mutamenti fisiologici e dei fattori ambientali, quali dimensione delle porzioni, orario, comportamento di altri commensali, danno sentore del potere saziante dei vari alimenti, sempre tenendo conto che nel controllare l'appetito è certamente e definitivamente determinante una qualche disponibilità di energia da parte della riserva epatica. Fame ed attività alimentare non appaiono, però, troppo strettamente connesse all'abbassamento delle riserve energetiche con modalità direttamente proporzionali. Questa comune credenza sembra responsabile del rischio di mangiare sempre più dell'effettivo necessario, come pure dell'inappropriata dimensione delle porzioni da presentare a tavola. Il primo processo che conduce alla sazietà specifica inizia dall'effetto sensoriale a livello di odore, temperatura, consistenza, gusto, e finisce con l'inibire il desiderio di procurarsi le sensazioni appena esperite. Gli alimenti aventi caratteristiche sensoriali simili verranno ricercati in maniera notevolmente minore, anche in un pasto successivo. A livello evolutivo, l'importanza della sazietà sensoriale specifica è riposta nella promozione della varietà e di una biodiversità nutrizionale.
I processi post-ingestione comprendono la dilatazione dello stomaco, il tempo che impiega a svuotarsi, il rilascio di ormoni da parte del duodeno, la stimolazione dei recettori presenti sulla mucosa intestinale. Ma, sul comportamento conseguente a certi effetti fisiologici, intervengono variabili culturali come gli atteggiamenti, in modo tale che anche l'appetito specifico, le preferenze innate, e le eventuali avversioni apprese per particolari sostanze, potrebbero subire la mediazione di influenze socio-psicologiche. Una prova di quest'asserzione sarebbe fornita dalla limitata efficacia della farmacoterapia sul regime dietetico. Gli atteggiamenti individuali verso la nutrizione risentono dell'assunzione di 5-idrossitriptofano, fluoxetina e d-fenfluramina, ma non delle altre fenfluramine. Gli atteggiamenti psicologici verso il cibo riescono addirittura a modulare il rilascio dell'insulina della fase cefalica (CPIR), il fattore che risponde all'ingestione degli alimenti. Atteggiamenti più restrittivi sono responsabili di minor rilascio. Azzardando, si potrebbe dedurre che, in qualche modo, le valutazioni coscienti sarebbero in grado di moderare i meccanismi fisiologici.
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La gente elabora una percezione di chi gli mangia accanto che tiene sostanzialmente conto, più che del genere, della dimensione del pasto. La presenza di altri ha un impatto non trascurabile sulla quantità di cibo ingerita, alla stessa stregua di come lo stress quotidiano aumenta il consumo di snack e spuntini. A volte, i risultati non riemergono limpidamente alla modifica del campione preso in esame, del momento, o del luogo. Vi sono infatti fattori di influenza, quali la classe socio-economica, l'educazione, la religione, l'essere o meno bersaglio di campagne pubblicitarie, maschi o femmine (fattori sociali), l'ereditarietà, le allergie, le dietoterapie, i bisogni nutrizionali (fattori fisiologici) e fattori fisici come la stagione o la zona geografica.
Le proprietà del cibo, dalla composizione fisica a quella chimica, producono caratteristiche sensoriali percepibili visivamente, al tatto, all'odore, oltre che al sapore. L'accettabilità di una qualità sensoriale, tipo l'amaro, o il piccante, viene appresa grazie all'esposizione ed all'esperienza. La composizione chimica può avere effetti fisiologici in quanto il consumo di cibo ad alto contenuto energetico conduce prima al senso di sazietà, mentre, se le conseguenze dell'ingestione sono sgradevoli, si otterrà in futuro un comportamento di evitamento.
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Un processo di apprendimento molto difficile da estirpare è quello indotto da un'esperienza di malessere provocato da qualche alimento. L'anticipazione delle conseguenze si somma a motivazioni sensoriali, affettive e concettuali. Il convincimento sulla negatività di un certo alimento, la credenza circa i suoi effetti dannosi sono comuni alla maggior parte degli animali, mentre la conoscenza della natura e dell'origine di una pietanza è un prodotto squisitamente culturale. Si è proposta una tassonomia dei vari tipi di rifiuto del cibo, in base alla sua sgradevolezza, pericolosità, inadeguatezza, ripugnanza. Fermo restando che è del tutto personale l'apprezzamento di un qualche alimento comunemente considerato commestibile. Siccome anche la considerazione sulla commestibilità può variare in seno a culture diverse, non rimane che la significatività delle congetture universalmente riconosciute e culturalmente determinate sulla natura di un oggetto a dettarci come soltanto inadeguatezza e ripugnanza siano manifestazioni supportate dalla cultura, in quanto sgradevolezza e pericolosità sono concezioni diffusamente condivise nel mondo animale. La funzionalità evolutiva di una tale evidenza consiste indubbiamente nell'anticipazione di conseguenze negative al fine di evitare sostanze tossiche, o che provocano reazioni allergiche.
L'esposizione individuale a determinati alimenti varia a seconda della loro ammissibilità all'interno di una cultura. Le credenze che certi cibi siano meno salutari, o facciano ingrassare, o non siano appropriati, provocherà la conseguenza comportamentale ed il grado della sua significatività. Tutto ciò sarà riflesso dall'enfasi pubblicitaria e si ripercuoterà su eventuali preoccupazioni relative agli effetti di una dieta sullo stato di salute di una persona. Ma sono gli effetti dell'esposizione ad indirizzare le preferenze alimentari, sino a convalidare l'affermazione che ci piace ciò che siamo abituati a ritenere che ci piaccia. Il misoneismo in ambito alimentare si esprimerebbe come una ritrosia sconfinante nella neofobia. Evitare pietanze nuove ostacola la varietà e la diversificazione nelle diete, in specie in quelle dei bambini, sacrificando la biodiversità nutrizionale. Mentre l'esposizione ripetuta ed i frequenti assaggi incidono sull'abitudine tanto da far concludere che la preferenza potrebbe in buona sostanza mascherare la mera esposizione verificatasi nel corso dell'età infantile. Gli atteggiamenti vengono appresi secondo un modellamento di tipo imitativo, per cui ci si adegua a comportarsi come gli altri. I bambini piccoli, in particolare quelli di età inferiore ai quattro anni, accettano un cibo con cui non hanno dimestichezza solamente se questo è prima assaggiato da un genitore, un familiare, o chi li accudisce. Ancor meglio, si innescherà più facilmente il meccanismo dell'imitazione se sono dei coetanei a rompere il ghiaccio ed a provare la novità. Difatti solo se si mantiene una modalità del tutto confidenziale nel proporre il nuovo e l'ignoto si potrà riscuotere successo. Fare promesse, offrire ricompense pur di invogliare al primo assaggio, o ad accettare ciò che pregiudizialmente "non piace", provoca un'ulteriore riduzione del gradimento. Se, infatti, per logica elementare, quella qualcosa, per essere ingerita, va risarcita vuol dire che è proprio sgradevole. La proposta di compensazione non fa che confermare l'iniziale presunzione di sgradevolezza, aumentando la diffidenza.
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Gli effetti post-ingestione procurati da un particolare alimento hanno un impatto pure sul funzionamento psicologico. L'esperienza insegna quali sono le conseguenze dell'assunzione dei diversi cibi per favorire le successive scelte alimentari sulla base di caratteristiche prevedibili. La religione può richiedere certe scelte a prescindere dalle preferenze personali. La disponibilità di risorse, il costo degli alimenti, marketing e pubblicità hanno pure un loro discreto peso sulla scelta alimentare.
Individui con personalità diverse adottano diversi stili di vita. Livelli differenti di istruzione e di conoscenze nutrizionali condurranno a scelte differenti. Occasioni di apprendimento ed esperienze precedenti creeranno credenze, valori, abitudini conseguenti. A subire le maggiori modifiche saranno gli atteggiamenti individuali verso il cibo, relativi alle sue proprietà ed al rapporto qualità-prezzo. Le differenze sensoriali sostenute da differenti sensibilità e da gradi diversi di accettabilità incomberanno con il loro ascendente. Tolleranza e sazietà saranno della partita, così come le attenzioni per la forma fisica e per le ripercussioni sulla salute sosterranno gli sforzi esercitati sul controllo del peso corporeo. I programmi indirizzati a promuovere cambiamenti nel regime dietetico devono tenere conto di quei modelli applicabili alla scelta alimentare che includano, non solo il mantenimento ponderale ad uno standard, ma pure i livelli percepiti di stress e gli obiettivi di rappresentazione del sé.
L'aspetto visivo di un cibo ne fa dedurre il grado di maturazione e la freschezza . La consistenza al tatto dev'essere adeguata alle aspettative. Gli odori vengono percepiti già prima dell'accostamento alla bocca. Subito dopo, l'olfatto contribuisce a fornire una percezione globale del sapore complessivo. Una volta mischiate alla saliva, le sostanze chimiche verranno valutate dalle papille gustative che ricoprono la lingua, secondo la classificazione di dolce, salato, aspro e amaro. Per le sostanze dal sapore dolce esiste una preferenza innata. L'organismo reagisce al sapore dolce con un marcato rilassamento dei muscoli del volto, l'accenno ad un sorriso ed un passaggio della lingua tra le labbra, corrispondente alla classica "leccata di baffi" dei felini. Quanto più è intenso il sapore dolce tanto più viene percepito piacevole. L'amaro e l'aspro, più del salato, risultano invece sgradevoli non appena sono abbastanza forti. La ricettività innata verso la dolcezza torna utile dal punto di vista evolutivo nell'assicurare l'immediato riconoscimento delle fonti nutritive dall'apporto calorico maggiore. Pure le preferenze sensoriali sono soggette alle procedure dell'apprendimento. Questo gradimento media la relazione tra i fattori sensoriali e la scelta alimentare, in modo tale che la maggior parte delle preferenze alimentari siano modellate dal contesto e dalle conseguenze dei pasti. Infine ci si accorge di essere giunti a concedersi solo ciò a cui si è già abituati.
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Solitamente si prendono posizioni nei confronti degli altri, a volte senza esitazioni, altre volte basandosi pregiudizialmente soltanto sul consumo di cibo, la dimensione ed il contenuto del pasto. La formulazione di questi giudizi sociali impostati sulle modalità di alimentarsi viene presumibilmente guidata da implicazioni morali connesse all'atto di mangiare ed a certi tipi di pietanze. In quest'ambito sembra che un'etica puritana si sia improntata su di un'educazione idonea a sviluppare la capacità di procrastinare le gratificazioni e sul tanto celebrato principio filosofico del "sono ciò che mangio". Eppure, per come è forte la credenza che le persone, in qualche modo, assumano le caratteristiche associate a quello di cui si nutrono, coloro i quali vivono nella convinzione che i contenuti morali del cibo vengano comunicati, ricorreranno al cibo per lanciare quei segnali, più o meno potenti, sui quali desiderano che si basi il giudizio sociale su di loro, con la conseguente affermazione del principio del "mangio quel che (
e per come) sono".
Le frettolose valutazioni dello status sociale sulla base delle marche scelte costringe a ricorrere a questa informazione per elaborare messaggi di rappresentanza e di rappresentazione di sé. Ne deriva che le scelte che si fanno comunicano per lo più delle preconfezionate immagini di se stessi. Quanti lavorano nel campo della pubblicità distinguono infatti, i prodotti, in base alla loro funzione, tra utilitaristici e strumentali da una parte, e dall'altra genericamente espressivi di un'identità sociale. In un caso ricorrono ad una strategia creativa che pone in evidenza le caratteristiche pratiche, funzionali, di un prodotto per come si propone strumentalmente utile, nell'altro creano un'immagine idealizzata del fruitore, comunicando così che il futuro possessore di ciò che vendono sarà certamente visto in quel determinato modo.
In linea con la teoria dell'aspettativa-valore, si tende a massimizzare il "guadagno" che si riceve in contraccambio per l'acquisto di un prodotto utilitaristico negli stretti termini economici della soddisfazione del suo mero scopo strumentale. Nel caso, invece, della funzione di espressione di identità sociale, al prodotto di rappresentanza viene richiesto che abbia per gli altri la maggior salienza possibile, onde porre in maggior rilievo un'appartenenza, e comunicare un qualcosa, in termini di valore, o altre informazioni relative a se stessi. A fini pubblicitari, risulta perciò particolarmente persuasivo far leva sulla trasmissione di tali impressioni.
Il coinvolgimento viene indotto dal desiderio di esprimere, in relazione alla personale importanza attribuita a certi valori, qualcosa di se stessi, oppure atteggiamenti socialmente accettabili, in funzione della rappresentazione di sé. Si può, inoltre, individualmente acquisire interesse nei confronti di un determinato risultato, come nel caso del cambiamento di dieta, il quale non può fare a meno di essere supportato efficacemente da argomentazioni di un certo rilievo. La perdita di peso dipende da fattori molteplici, ed è pertanto piuttosto discutibile, al fine di ottenere risultati permanenti, una reale utilità della sola dieta dimagrante. Paradossalmente sembrerebbe più facile modificare gli atteggiamenti di chi non sarebbe personalmente implicato, rispetto a quelli di chi è invece direttamente coinvolto. Eppure la pubblicità mediatica incoraggia soprattutto le donne a perseguire una certa forma fisica standardizzata, ma per la maggior parte di loro, realisticamente non raggiungibile.
Nella quotidianità non sempre risulta applicabile una forma idealizzata della presa di decisione, quale può essere quella proposta dal modello aspettativa-valore. Il gusto e la salute si scoprono determinanti di rilievo negli atteggiamenti, per cui le argomentazioni che richiamano alla perdita di peso ed al gusto delle alternative a basso contenuto di grassi, o di calorie, si rivelano alla fin fine più efficaci di quelle che attengono genericamente solo alla salute.
Molti degli effetti della campagna per la promozione della salute son riconducibili alla percezione di alimentarsi in modo sano, di consumare senza sprechi, o di dimagrire, il che necessita di argomentazioni "forti", corroborate da prove robuste. In questo caso le tecniche persuasive adottano una "via centrale", seguendo il modello della probabilità di elaborazione. Mentre il richiamo di una battuta, il rinforzo del messaggio, l'esposizione di ruolo, la marca, sollecitano l'impiego di strade secondarie, o sentieri "periferici", percorribili subdolamente mediante l'accesso a molti media.
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Il cibo non è semplicemente un "oggetto" ed in particolare non corrisponde ad un eventualmente ipotetico oggetto socialmente e psicologicamente inerte, visto che il giudizio sociale viene frequentemente improntato sull'uso che di esso si fa ed in quanto proprio per questo la scelta alimentare comunica qualcosa di noi. Per lo più il giudizio degli altri si fonda su degli stereotipi, a loro volta sostenuti dall'esteriore apparenza. Gli stereotipi costituiscono delle vere e proprie scorciatoie cognitive atte ad ottenere quelle generalizzazioni che possono accomunare le persone in gruppi sufficientemente omogenei, onde programmare gli atteggiamenti reattivi nei loro confronti. Uno degli stereotipi maggiormente posto in rilievo viene evidenziato dalla forma fisica. Cosicché i rotondeggianti endomorfi vengono percepiti come pigri, lenti e trascurati; i magri ectomorfi, seppur ordinati, vengono ritenuti poco coraggiosi; i muscolosi mesomorfi di bell'aspetto non importa che siano poco intelligenti e poco gentili. In generale, le persone in sovrappeso ricevono dei giudizi mediamente più negativi su di un'ampia varietà di caratteristiche, a cominciare dalla bellezza, velocità, pulizia, umore, salute, capacità di rapportarsi e di intrattenere relazioni solide, e così via. Ma ciò è grandemente determinato da tutta una serie di meccanismi psicologici e sociali che convogliano la concezione della desiderabilità, concentrandola tutta sulla magrezza.
I pregiudizi si costruiscono per lo più con delle attribuzioni di responsabilità. Disoccupati, alcoolisti, depressi, ecc. vengono stigmatizzati se accusati di essere responsabili delle loro condizioni negative, in ambito lavorativo, comportamentale, affettivo, ecc. Viceversa ricevono comprensione ed aiuto, qualora venissero assolti dalle loro colpe. Gli atteggiamenti sfavorevoli verso le persone in sovrappeso sono tipiche di quanti dimostrano una mentalità autoritaria, tendenzialmente xenofoba, "razzista" nei confronti di ogni diversità, convinti come sono che la spada della "giustizia divina" si abbatta sempre su chi lo merita, senza mai sbagliare bersaglio. In quanto responsabili della loro abnegazione, mancanza di controllo ed aumento ponderale, i grassi meritano di essere redarguiti con rimproveri ed irritate esternazioni, nonché puniti dall'esclusione sociale.
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Si può ricorrere alla maniera in cui si mangia in pubblico per comunicare relazioni interpersonali. Una prima forma di comunicazione sociale è costituita proprio dalla condivisione dei pasti, il che suggerisce immediatamente un certo qual modo di trovarsi in relazione amichevole o di star maturando una qualche intimità destinata eventualmente ad andare approfondendosi, per trasformarsi simbolicamente in un "nutrimento sociale", di tipo familiare o di coppia. Nel portare alla bocca qualcosa che si è trovato a contatto con un altro individuo, in una sorta di "consustanziazione", se ne assimilano magicamente le caratteristiche, in positivo, altrimenti è l'alimento stesso a divenire improponibile ed inaccettabile in quanto "contaminato".
Nell'esprimere giudizi sociali si tiene conto sia del contenuto come della dimensione del piatto. Con la maggior frequenza sono le rappresentanti del sesso femminile ad essere sottoposte ad un sommario giudizio in base alla quantità di ciò che mangiano. Ma l'effetto "etico" esercitato sul pronunciamento del la "sentenza" sociale molto risente degli ideali culturali e della concezione medesima della femminilità. Le donne, da parte loro, tendono ad interpretare se stesse sforzandosi di mostrare un consumo elegante di cibi nettamente distinguibili per il loro significato morale. A seconda di come vogliono presentarsi, ed in specie in quelle situazioni che richiedono maggior salienza della loro femminilità, le donne adeguano il loro comportamento a tavola, convinte come sono che la quantità di cibo consumato in compagnia sia inversamente proporzionale alla desiderabilità sociale. Per le donne consumare pasti ridotti è un comportamento ritenuto appropriato, a volte addirittura seduttivo, mentre gli uomini risentono meno di un giudizio formulato sulla quantità del cibo ingerito. Tendenzialmente, gli uomini mangiano di meno se sono in dolce compagnia, ma ciò non avverrebbe per meglio gestire la comunicazione di un'impressione virile. Tendono, invece, a mangiare di più, ed in modo competitivo, nel corso di una convivialità per soli uomini. A seconda del genere della compagnia, quindi, le motivazioni su cui si fondano gli effetti della presenza di altri apparirebbero, a prima vista, differenti. Va comunque sottolineato come i veri disturbi del comportamento alimentare siano in genere nettamente contrassegnati proprio dalla solitudine, oltre che dalla segretezza e dalla dissimulazione.
Sul comportamento alimentare la società esercita influenze abbastanza complesse. La salienza più evidente riguarda una certa concezione idealizzata della femminilità, perfino più della bellezza o del semplice ruolo di genere. Eppure ci sono delle situazioni, e non sono neppure poche, di contatto sociale con il cibo, le quali prevedono un contesto conviviale in cui i commensali si conoscono ed esprimono una certa amicizia o familiarità tra di loro. Questo tipo di convivialità risente molto meno delle pressioni derivanti dagli ideali culturali.
Esistono delle nettissime influenze interpersonali sulle modalità di stare a tavola; gli altri commensali, con la loro semplice presenza, determinano il consumo, se non proprio pure il tipo di cibo. Pertanto anche le modalità di comunicazione che vengono esercitate attraverso l'alimentazione sono altrettanto rilevanti. La prima asserzione è la più antica e l'idea che la semplice presenza di terzi "(in-)comodi" influisca sul comportamento conviviale ha assunto la qualifica di "facilitazione sociale". Qualifica inadeguata e, per certi versi, fuorviante, se si pensa che, a seconda della percezione personale di sentirsi o meno osservati, o di familiarità con il gruppo, si possa ricevere un'influenza altrettanto inibitoria. Condividendo il desco con amici e parenti si consumano più dolci, forse perché nell'introdurre un maggior numero di calorie, in proporzione al volume, non si farebbe una buona impressione agli estranei. Generalmente si sintetizza che ad essere facilitati dalla presenza di amici e parenti sarebbero i comportamenti semplici, mentre quelli più complessi verrebbero inibiti dagli estranei. La teoria del "drive" di Zajonc (1965) prevede, in presenza di altri, un'attivazione della risposta dominante. Per cui verrebbe eseguito il comportamento abituale più reiterato e contemporaneamente verrebbe congelato ogni atto appreso con minore efficacia. La mera azione di nutrirsi dovrebbe quindi ricevere, almeno in linea di massima, dalla semplice presenza d'altri, una netta facilitazione sociale. Eppure, se i commensali consumassero una quantità contenuta di alimenti, già questo fatto indurrebbe a mangiare meno di quando si mangia da soli, e viceversa. Si reagisce, allora, ad una certa circostanza con un'arcaica reazione di imitazione. Coloro i quali sono motivati a mettere ordine nel proprio mondo si rimettono al giudizio altrui, onde ricevere un insegnamento educativo, propedeutico alla maniera di comportarsi in situazioni tendenzialmente ambigue. Il consumo di cibo tende ad aumentare, fino ad un certo punto, con il numero dei partecipanti al banchetto. La quantità di cibo ingerito non aumenta ulteriormente con l'incremento delle presenze a tavola. In media, in presenza d'altri, l'aumento della quantità di alimenti consumati si incrementa in una percentuale davvero fin troppo significativa. Ciò accadrebbe durante i pasti principali, in particolare a cena, che probabilmente si svolge in compagnia più spesso del pranzo, piuttosto che nel corso dei pasti minori, quali spuntini e colazioni, dal maggiore andamento solitario. Il pasto serale,poi, è più facile che comprenda gli alcolici, o che venga elaborato al ristorante, mentre i pasti di fine settimana e delle festività comandate sono verosimilmente più abbondanti di quelli dei giorni feriali, magari con un ulteriore incremento di dolciumi. L'orario della giornata, il tipo di pasto, il consumo di alcoolici sono fattori d'indubbia importanza, tuttavia sempre meno rilevanti del fatto che le persone tendono a passare più tempo a tavola quando si ritrovano in comune. Per cui in compagnia non solo si mangia di più, ma anche più a lungo, con un effettivo ulteriore incremento del cibo ingerito pure durante i tempi supplementari trascorsi insieme. Ed, al limite, sarebbe già di per sé sufficiente la maggior durata del pasto a giustificare il notevole aumento di cibo ingerito.
Il novero delle persone presenti è correlabile all'ammontare di pietanze consumate; più sono i presenti, più si mangia. Un unico commensale al proprio tavolo fa aumentare la dimensione del pasto di una percentuale superiore ad un quarto; tale aumento continua proporzionalmente, seguendo la legge della diminuzione del guadagno, fino ai tre quarti, associando altre quattro-cinque presenze. Il considerevole aumento nell'ammontare degli alimenti, arrivati ad una certa quota, ne influenza sempre meno la quantità successiva. Tale strutturazione dell'influenza sociale, procedente nel senso della diminuzione, risponde alla legge psicosociale di Latamé (1981), desunta dalla teoria dell'impatto sociale, secondo la quale, psicologicamente "la differenza tra 99 e 100 è minore della differenza tra 0 e 1".
Solitamente si tende ad esercitare un controllo cognitivo sulla propria ingestione di cibo, mentre la presenza di altri allenta questo controllo sino ad una totale disinibizione. La moltitudine distrae come pure sentirsi a proprio agio tra amici. L'effetto della mera presenza di altri influenza indirettamente la quantità di alimenti, indipendentemente dalla loro, vera o presunta , volontà di indurci a mangiare di più. Le ragioni di quanto asserito andrebbero rintracciate nella percezione di come gli altri si comportano in nostra presenza (norma descrittiva) e nell'avvertita necessità di adattarsi al gruppo per ottenerne l'approvazione (norma ingiuntiva). La serenità dettata dal fatto di trovarsi in buona compagnia contrasta con l'ansia suscitata dal dover mangiare assieme ad estranei. Una rilassante tranquillità innesca il meccanismo della disinibizione. Gli obesi, perciò, se in associazione con altre persone in sovrappeso, mangiano di più che se al cospetto di normopeso. Amici, familiari e simili ingenerano un livello maggiore di facilitazione sociale. Mentre la gestione dell'impressione che si vuol fare sugli altri possiede una considerevole carica ansiogena. Del resto, la presenza di estranei, semplici conoscenti, colleghi di lavoro, richiede un controllo cognitivo maggiore e, nel tentativo di proiettare una certa immagine di se stessi, facilita uno stato di particolare emotività.
L'appropriatezza delle norme sociali riguardo all'atto di nutrirsi risponde alla corrispondenza con la presenza altrui, con il risultato di accordare il consumo a quello degli altri. Qualora però si volesse fare buona impressione, prevarrebbe invece il dettato di un'alimentazione minima, liberatrice dall'ansia di un'eventuale accusa di mancanza di controllo dell'impulso nell'ingollare smodatamente. In specifiche situazioni, gli ideali culturali possono subire un drastico intorpidimento, con la conseguenza che la presenza di altri (estranei), a volte impone il comportamento dettato dalla norma dell'alimentazione minima, in altre circostanze (in buona compagnia) prende il sopravvento l'accordo, l'emulazione, la corrispondenza a quelli che ci circondano. In ogni caso sembra che, più dei temuti giudizi sociali negativi , ad inibire l'attività nutritiva sia la necessità di presentare un'immagine positiva di se stessi.
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Al di là delle preferenze, sulle scelte alimentari esistono una molteplicità di influenze. Molta importanza rivestono le variabili sostenute, più che dai bisogni percepiti, dall'identità. L'utilità dei bisogni percepiti verrà scoperta nel momento in cui saranno incorporati nella misura dell'intenzione, quale precipitato di una motivazione richiesta. L'identità modera la relazione tra atteggiamento ed intenzione, cosicché gli atteggiamenti di chi maggiormente si identifica risultano più predittivi delle intenzioni stesse. E la stabilità rappresenta una proprietà che ancor più aumenta il potere predittivo delle intenzioni.
L'identità è il concetto che di sé si ha, che di sé si percepisce, o quanto meno, l'insieme delle caratteristiche stabili che si è soliti attribuire alla propria personalità. L'identità presenta un significato motivazionale molto forte, proprio perché maggiormente induce a porre in atto quei comportamenti che più contribuiscono a mantenere e rafforzare il senso di sé. Per cui, ad esempio, quanto più ci si sente un consumatore "ecologico" tanto più si sarà indiscutibilmente motivati a seguire un'alimentazione sana, che dia assoluta preferenza a cibi provenienti da coltivazioni biologiche o biodinamiche. In questo senso, l'identità, indipendentemente dagli altri fattori, esercita un ottimo potere predittivo del comportamento a tavola. E una forte identificazione con un tipo di consumatore altrettanto fortemente indirizzato e determinato ad essere considerato "verde" darà un notevole contributo alla presunzione delle intenzioni di continuare a consumare verdure prodotte da agricoltura biologica o biodinamica. E', dunque, il modo in cui le persone vedono se stesse ad esercitare l'influenza maggiormente significativa sulla motivazione a scegliere certi cibi piuttosto che altri, perché, rafforzando la propria identità mediante un'attuazione ripetuta, le persone con un forte concetto di sé sono indubbiamente più motivate da questa necessità di mantenere il senso della propria peculiarità piuttosto che dalla pressione sociale percepita. Nella misura in cui il comportamento ripetuto si trasforma in abitudine, l'intenzione sarà guidata esclusivamente dall'identità, grazie ad una costante motivazione a comunicarne il valore. La scelta dell'alimento proveniente dall'agricoltura biologica costituisce, allora, un vero e proprio atto comunicativo finalizzato a presentare delle personali credenziali fortemente espressive.
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Gli atteggiamenti sono il risultato di una presa di decisione e quest'orientamento potrà cambiare soltanto se contemporaneamente avverrà la modifica delle credenze sottostanti. Gli atteggiamenti, però, possono essere multidimensionali, persino ambivalenti, e quindi positivi per quanto attiene il gusto e negativi per quel che concerne il contenuto in grassi; la scelta in questo caso si troverà in bilico tra motivazioni contrastanti. Per esempio, riguardo al consumo di prodotti di origine animale, per i quali ci si sente attratti, si possono provare sentimenti opposti dovuti alla compresenza di questioni morali relative al benessere degli esseri viventi. L'ambivalenza modera la relazione tra atteggiamenti ed intenzioni rendendo più predittivi solo gli atteggiamenti più forti e meno ambivalenti. In un vegetariano convinto avrà maggior peso la motivazione etica, in quanto nell'adottare la dieta incruenta l'ambivalenza dell'atteggiamento avrà prodotto una correlazione diversa, di gran lunga più debole, con l'intenzione. Gli atteggiamenti forti , a cui non occorre la mediazione delle intenzioni, si proporranno da soli quali diretti predittori di comportamento.
L'ambivalenza diviene facilmente bersaglio del tentativo di convincimento, per la sua vulnerabilità nei confronti della comunicazione ricevuta, appena convincente e persuasiva. Essendo la predittività di comportamento da parte degli atteggiamenti correlata alla loro forza, i tentativi di persuasione faranno leva esclusivamente sulla loro debolezza. A complicare l'ambivalenza dell'atteggiamento interviene un'eventuale conflittualità dettata dalla contrapposizione tra emozione e cognizione. Una medesima cosa può venire percepita sia appagante che dannosa, sia sgradevole che utile. Rispetto alle sollecitazioni emotive (in termini , ad esempio, di senso di colpa), le conseguenze cognitive (quali il rischio per la salute) necessitano di tempi più lenti e di una più lunga durata dei tentativi di persuasone, e molto probabilmente è proprio questo il motivo per cui la scelta alimentare si trova più soggetta ad un orientamento emotivo (di piacere), piuttosto che ad una razionale valutazione (di spreco).
Il comportamento sociale viene guidato meno dagli atteggiamenti che quasi indipendentemente da inconsapevoli procedure automatiche. L'influenza di questi processi automatici migliora sicuramente la performance, aumentando le probabilità di attuazione di quei comportamenti considerati "prosociali".
Nel considerare la vasta gamma di influenze sensoriali, l'esposizione a degli inneschi attivanti di particolari parti di rappresentazioni, o associazioni mnesiche, basate su vista, tatto, odorato, gusto
avrà il sopravvento su qualsiasi manipolazione linguistica, tentativo di convincimento logico, capacità persuasiva. E, poco prima di svolgere un'azione, solamente la conflittualità sarà in grado di mitigare l'effetto di quel "priming".
Siccome le abitudini sono comportamenti posti in atto automaticamente, come risultato di stimoli contestuali, dimostrano esplicitamente che, in un ambiente che rimane stabile, a predire il comportamento futuro, ancor meglio delle intenzioni, sarà il comportamento tenuto in passato.
© Giuseppe M. S. Ierace
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