La Psicologia a Tavola II
"A qualcuno piace piccante" aspetti psico-antropologici nella scelta alimentare
11 ottobre 2008
L'educazione a corretti stili di vita, alla salute ed al benessere, attraverso una più giusta alimentazione, la diffusione dell'attività sportiva, o quanto meno dell'abitudine all'esercizio fisico, è ormai riconosciuta come una necessità inderogabile.
Sempre più numerosi sono gli uomini, con un girovita superiore a 90 centimetri, che presentano pertanto un rischio di ammalarsi di diabete di tipo II (del 18% in più, rispetto a chi è in forma), di ipertensione (10% in più), di ipercolesterolemia (8% in più), nonché di malattie cardiocircolatorie, degenerative e persino di cancro.
Anche tra le donne è sempre più diffuso un Indice di Massa Corporea (rapporto tra peso e altezza al quadrato) maggiore a 30, con conseguenti ripercussioni sull'aspettativa di vita.
Persino un terzo dei bambini si trova già in sovrappeso, con malattie che, fino a 10 anni fa, si sarebbero riscontrate soltanto tra gli over-50.
Alimentazione corretta e diffusione dello sport possono rappresentare delle valide soluzioni profilattiche al dilagare della sedentarietà.
La sensibilizzazione a questo problema ed una seria educazione sanitaria vanno ancor più incoraggiati tra coloro i quali sono costretti ad assumere farmaci i cui effetti collaterali indesiderati di tipo oresizzante, dimostrati ad esempio un po' per tutti gli psicofarmaci, registrano quali conseguenze incombenti complicazioni di obesità e diabete. Questo tipo di educazione alla salute psicofisica, all'attività sportiva e ad una corretta alimentazione rientra a pieno titolo in qualsiasi programma terapeutico-riabilitativo attuale.
Analiticamente ed alla luce delle più recenti ricerche, l'approccio multidisciplinare al tema della nutrizione aspira a ridefinire quello che si dimostra per un antico valore alimentare ed altrettanto antico e consolidato stile di vita. Del resto, la strategia più qualificata, in quest'ambito, indica di preservare e tutelare efficacemente proprio questo che risulta un vero e proprio patrimonio culturale, gastronomico e salutistico, con il consapevole ripristino di una vera e propria "arte" culinaria, la quale, assimilando il concetto che il cibo è anche, e soprattutto, prevenzione medica, ha definitivamente abbandonato la classista definizione di "cucina dei poveri" per assurgere alla concezione filosofica del parco desco o accogliere quella dei gourmet dello slow food.
La dieta mediterranea, senza dubbio la più legata alla tradizione gastronomica nostrana, alla terra del mezzogiorno ed ai suoi prodotti stagionali, viene universalmente considerata la migliore quanto a prevenzione di tumori, arteriosclerosi, malattie cardiovascolari e del metabolismo, ovvero anche solo e semplicemente per abbassare la quantità di trigliceridi e colesterolo nel sangue.
E ciò proprio grazie al bando dei grassi animali!
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Tale esclusione dal nutrimento quotidiano dei cibi di derivazione cruenta, apparenta strettamente la dieta mediterranea al desinare pitagorico ed alla cultura non violenta vegetariana, che auspicano una sempre più profonda "coscienza alimentare", anche se intellettualmente limitata ad una sensibilizzazione verso il ripristino della tradizione dei buoni cibi tipici del nostro territorio e di quelle sane abitudini alimentari del, non del tutto remoto, passato pre-industriale.
La civiltà consumistica, infatti, ha commesso il peccato, non certo veniale, di strutturarsi come economia di mercato, privilegiare il risparmio di tempo, disinteressarsi della qualità, tendendo così all'appiattimento del gusto, laddove invece il riappropriarsi dei sapori esalta l'espressione culturale e la tipicità di un ambiente insieme storico e geografico.
Il cordone di difesa predisposto, ad esempio, dal movimento slow food nei confronti dello stile di vita contadino ha il grande merito di diffondere una nuova coscienza alimentare che invita a nutrirsi di idee prima ancora che di cibi, e che sceglie questi ultimi tra quelli rigorosamente appartenenti alla tradizione più genuina.
Il cibo, insomma, costituisce una complessa rete di abitudini, miti, passioni, che creano tanto opportunità quanto problemi per chi il cibo lo produce o lo cucina, ma anche per quelli che sono gli attori del mercato.
Il modo in cui gli alimenti sono scelti e prepararti è strettamente legato ai costumi di un popolo ed al suo tipico stile di vita, e crea indubbiamente forti valori sociali e di identità culturale.
Gli studi etnografici, od una osservazione partecipante, sono a volte in grado di catturare la spontaneità; le stesse chiacchierate che si fanno, quasi per consuetudine a tavola, mangiando, pongono in evidenza l'importanza dell'adesione più o meno condizionata a determinati modelli nutrizionali, tradizionali, come il contadino o il marinaro o quello mediterraneo, oppure moderno, dietetico, "fast"…
Il dopoguerra ha visto in auge il modello americano della quantità; il '68 lo ha contraddetto con il fenomeno del rigetto e le critiche sul suo stesso ruolo nel mondo e sulla globalizzazione in genere. L'esportazione di jeans, musica rock, film holliwoodiani hanno favorito una mitizzazione spesso contraddittoria all'interno di un unico modello costruito sullo star system, l'abbondanza, lo spreco, contrapposti all'atteggiamento di ribellione della beat generation. Per cui, volendo parafrasare una celebre canzone: "Si può prendere di tutto nel ristorante di Alice", dagli snack ai cheeseburger, dalla Coca alla Pepsi, in una sorta di osmosi tra opposizione, adesione, o fusione.
Naturalezza e genuinità, produzione biologica o biodinamica, riscuotono, al giorno d'oggi, maggiori consensi che però potrebbero rientrare nella categoria dell'apparire, e della moda del momento.
Mangiare seduti a tavola, in riunioni di famiglia, condividendo e godendo del cibo è un fatto di cultura tradizionale, di intensa valenza psicologica, oltre che propedeuticamente per abituare il gusto, apprezzare il poco, esercitare un atteggiamento curioso verso la ricerca della varietà, o della novità.
Il rito di mangiare insieme pizzica le corde dell'intimità, fa diventare più che compagni, letteralmente nella sua etimologia, quasi parenti, ospiti in senso sacrale.
La fatica dei coltivatori e dei preparatori dei cibi deve consistere nella consapevolezza per fare dell'alimentazione un fatto squisitamente culturale, poiché come nei campi, anche a tavola si nutre lo spirito, a volte in maniera tanto raffinata da rasentare la gastrosofia e la meditazione.
L'immaginifico dell'area tradizionale si scontra inevitabilmente con il progresso intento a far fruttificare le risorse. La valorizzazione proteica-nutrizionale spingerebbe verso una pericolosa tecnologia che punta al miraggio dell'ogm positivo.
L'eredità agricola ci ricollega invece, e molto di più, a concetti relativi ai cibi sani e nutrienti, a prodotti coltivati in modo naturale, secondo dettami biologici o biodinamici: alle conserve della nonna, al pane fatto in casa, ai formaggi del pastore… fino ad inglobare uno stile di vita salutista ed ecocompatibile.
L'altra area, adesso più trendy, è quella multietnica che consente di sperimentare gli apporti culinari di gruppi di varia provenienza geografica. In primo luogo quello degli immigrati, cinesi, magrebini, popoli dell'est europeo, ecc. in quello che potrebbe essere il vero scambio proficuo e senza conflitti, secondo questa sana consuetudine italiana di condividere il pasto, che diverrebbe ipso facto promotrice di integrazione sociale.
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La dieta mediterranea viene proposta per fronteggiare la prima causa di morte nel mondo occidentale: le malattie cardiache, che, insieme a diabete ed altre patologie derivanti da cattiva alimentazione, sono in testa ai problemi sanitari dei paesi industrializzati.
Si dice che la cucina mediterranea nuoti nell'olio di oliva, con una zavorra di cereali, legumi, verdure selvatiche, che vanno intrecciandosi nella stragrande maggioranza dei piatti.
Supporre che si tratti di una dieta "arcaica" non può trovare plausibile giustificazione per via dei contributi forniti dalla scoperta delle Americhe, in termini di patate, pomodori, peperoni, zucchini, fagioli, e dagli scambi con il vicino ed estremo oriente, in termini di riso, thè, caffè. Eppure la dieta mediterranea non è una sola, né monolitica, semmai si tratta di un mosaico complesso di variazioni che vanno a susseguirsi dalla Spagna all'Asia Minore, attraverso il meridione d'Italia e la Grecia. In comune tutte queste località avevano ("avevano", perché gli studi risalgono all'immediato dopo guerra, a cominciare dalla popolazione cretese) il dato incontrovertibile che più della metà delle calorie introdotte quotidianamente provenivano da vegetali, verdure, frutta e che l'apporto di grassi sia stato sostanzialmente quello monoinsaturo derivante dalle olive. Si è dimostrato che v'è qualcosa nell'uso dell'olio d'oliva, come complemento delle pietanze della cucina mediterranea, sicuramente meritevole di particolare attenzione.
Tutto quello che si mangia a Creta, a cominciare dall'horiatiki salata, viene innaffiato con olio d'oliva. Il regolare consumo quotidiano di almeno 50 grammi d'olio vergine d'oliva abbassava i livelli di trigliceridemia e manteneva un buon rapporto tra colesterolo "buono" (HDL) e "cattivo" (LDL), con conseguente decremento del rischio di malattie cardiache.
In più, grazie al contenuto di polifenoli, l'olio d'oliva si rivela ricco di antiossidanti per la prevenzione delle malattie degenerative, come il cancro. I cretesi, poi, lo considerano dotato persino di facoltà afrodisiache.
I nutrizionisti si posero ben presto l'interrogativo circa la possibilità pratica di esportare dall'isola, insieme con benefici annessi e connessi, l'autentica dieta in stile cretese. L'altra domanda è se l'olio d'oliva induca, sempre e comunque, le medesime risposte biologiche anche tra etnie differenti.
La risposta finisce per riposare sul dato incontestabibile che esiste qualcosa di profondamente legato alla cultura nel modo di alimentarsi, che spesso non è affatto emulabile massicciamente da altri. Ad esempio, molti cretesi sono ortodossi osservanti e si astengono da carni, latticini ed uova per ben 180 giorni all'anno, in occasione della quaresima e durante le vigilie delle festività. In quelle circostanze traggono vantaggio dal consumo delle piante selvatiche disponibili in ben determinate stagioni. Intorno alla Pasqua, si ha la possibilità di raccogliere molte di queste votana e aghria horta, erbe e verdure agre, fonti indiscutibili di vitamine, antiossidanti, acido folico ed acidi grassi omega 3. A fine inverno, danno la preferenza ad ortiche, prezzemolo, salsefica, carota e finocchio selvatici. Per la preparazione degli hortopita fanno ricorso per lo più agli spinaci. In estate usano i vegetali coltivati per le insalate, ma raccolgono pure vlita (amaranto) e persino stifno (belladonna), altrove neppure considerata commestibile, ad eccezione della Turchia. La tanto diffusa porcellana (portulaca olearia) la si trova fino agli inizi dell'autunno.
Gli elementi della cucina cretese, che abbiamo assunto a paradigma della dieta mediterranea, sono, quindi, come per una qualunque plant-based nutrition, strettamente correlati alle varietà di piante a disposizione, e vengono caratterizzati dalla potente combinazione di antiossidanti contenuti nell'olio di oliva e nelle verdure, anche grazie alla dedizione, sostenuta da profonde motivazioni religiose, ad un parco desco. In conclusione, il contesto in cui si vive e si mangia non può essere esportato tanto facilmente.
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Ciascuno di noi deve assumersi l'ingrato compito di auto analizzarsi, riflettendo sulle connessioni tra la propria mentalità, la propria attività, la cultura tradizionale, la possibilità (ma anche il dovere) di mantenersi in salute. Ciascuno di noi compie delle scelte per sé, ed a volte, pure a nome di altri,
per lo più i propri familiari. A volte si tratta di fare delle scelte dure, costretti come siamo ad affrontare implicazioni procurate da particolari fattori di rischio. Altre volte le opzioni possono presentarsi tra loro in competizione, suscitando un coinvolgimento emotivo angoscioso ed un vissuto di sofferenza psicologica. Cambiare regime di vita, modificare strettamente la dieta, intraprendere un'attività fisica, assumere sistematicamente dei farmaci (ad esempio per abbassare il livello del colesterolo), e farlo per il resto dei propri giorni, imponendosi molta autodisciplina, son tutte cose che potrebbero avere il peso di vere e proprie condanne all'ergastolo.
La ricchezza di informazioni disponibili, a livello scientifico, offre spesso la possibilità di formulare diagnosi sempre più raffinate, tanto da ingenerare speranze che poi non sempre possono essere soddisfatte in maniera risolutiva con la stessa semplicità con cui sono state impropriamente suscitate.
Nella vita quotidiana è indispensabile fare riferimento a delle reti di sostegno comunitarie che affianchino psicologicamente, e che siano poste su basi culturali abbastanza solide: ad esempio, per favorire un'alimentazione in sintonia con il luogo, in modo tale che la nutrizione non sia avulsa dalla genetica e dalla gastronomia del territorio.
"Dopo tutto, ognuno è come la terra, il mare e l'aria… è questo che forma loro stessi, gli oggetti d'arte che producono, il lavoro che fanno ed il modo in cui mangiano e bevono" (Gertrude Stein)
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Tra gli animali un determinato alimento è tipico di una certa specie, tra gli uomini diviene la chiave per accedere all'identità di gruppo. In alcune culture i "nemici" vengono definiti "quelli con la bocca diversa".
I casi di depressione clinica riportati tanto frequentemente tra gli emigrati potrebbero pertanto trarre giovamento dalla dieta a base di pietanze tipiche della madrepatria.
Nella pratica sanitaria, integrare, o meglio reintegrare, la dieta con la genetica e la cultura sembra la soluzione migliore per il conseguimento, o il mantenimento, della salute psicofisica. Eppure, senza la necessaria "forza vitale", non c'è alimento nutriente, né attività fisica, e neppure terapia che separatamente possano produrre miglioramenti di alcun genere. Volontà di guarire ed autodisciplina, inoltre, bisogna che assecondino la natura, poiché qualsivoglia arroganza progressista non può non tenere nella giusta considerazione il dovuto rispetto della tradizione.
Molti dei cibi che apportano benefici alla salute sono ricchi di quei carboidrati "a lento rilascio", considerati "buoni". La loro importanza nel controllo dell'obesità e del diabete, probabilmente, risulterebbe superiore a quella di una dieta solitamente imposta, povera di carboidrati vegetali e magari ricca di proteine e grassi animali. In base alle differenze genetiche nelle risposte corporee all'alimentazione, attraverso glicemia, colesterolemia, aumento ponderale, allergie, il particolare insieme di pietanze a cui una popolazione si è adattata nel corso del tempo può rivestire, affiancandosi allo stile di vita più consono, una rilevanza analoga alla medesima composizione del cibo.
Tutte le persone indistintamente desiderano con ardore che non soltanto i loro corpi si mantengano in forma, ma anche lo spirito sia in armoniosa sincronia con un atteggiamento positivo ed un benessere olistico. Un tale coordinamento psicosomatico non può prescindere da una comunione d'intenti che si espanda all'intera società che ci circonda e da un rigoglio che si esprima nella naturale fertilità della terra.
La salute mentale e quella fisica sono fortemente dipendenti dalla cultura del territorio. Del resto, gli alimenti che forniscono un fondamentale contributo al benessere corporeo, se non coltivati e raccolti secondo tradizione potrebbero avere una resa di gran lunga inferiore, in termini di "forza vitale", in quanto il loro valore (e non solo quello nutritivo) è direttamente proporzionale all'interesse comunitario nei confronti della crescita delle piante, dello sviluppo del suolo, della conservazione del paesaggio.
Lavorare in gruppo nei campi, a seminare, piantare, o estirpare infestanti, si dimostra una valida terapia occupazionale, che, a ben ragione, rientra sia in un progetto sanitario che in una programmazione di educazione culturale. Ed a questo proposito ha davvero senso impiegare il termine, apparentemente utopistico, di "salute globale" allo scopo di sottolineare come la salute degli individui non possa assolutamente separarsi dal benessere comune, dal legame culturale che rende curativi alimentazione, terreno e paesaggio, e dalla salute della natura, suolo, aria, acque. Si tratta in fondo di un più ampio insieme di relazioni positive in azione per incentivare una varietà di mezzi che si rafforzano a vicenda.
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Ciò senza dimenticare di tenere nella giusta considerazione che le risposte dell'organismo fin dagli inizi dei tempi si sarebbero andate formando e si sarebbero costantemente adattate alla particolare gamma di scelte alimentari, pressioni ambientali, esposizione alle malattie. Tali reazioni continuano a venire rimodellate tuttora in quanto una certa evoluzione è osservabile in tempi relativamente brevi. Senza contare, poi, l'effetto che può avere una qualche modalità di isolamento riproduttivo nel favorire una deriva genetica, ovvero una divergenza; una più pronunciata deviazione delle frequenze dei geni osservabile nelle popolazioni ristrette.
Ristrette o isolate, ovunque abbiano vissuto, le popolazioni umane hanno interagito con insiemi di prodotti chimici particolari provenienti da diete variate dal desiderio, dalle fasi della vita, dall'invecchiamento, dall'attività fisica, da stati fisiologici, come la gravidanza, e da condizioni patologiche, quali malattie o ferite.
Avendo, inoltre, presente l'esagerata esposizione a composti derivati, come gli acidi grassi insaturi e gli additivi tossici, molte diete prendono spunto da teorie alla moda su cosa sia meglio, dal punto di vista nutrizionale, per l'organismo dell'uomo contemporaneo. Boyd Eaton ed altri antropologi della nutrizione come Konner e Shostak, hanno sottoposto all'attenzione degli studiosi, in una prospettiva evolutiva dell'alimentazione, l'importanza dell'eredità paleolitica inscritta nei nostri geni, suggerendo così a Williams e Nesse di individuare l'etiologia della maggior parte delle malattie odierne, cosiddette del benessere, nell'esserci di molto allontanati, e forse troppo rapidamente, da quello stile di vita, dall'attività fisica e dal comportamento alimentare dei nostri progenitori. Definirono questo punto di vista "medicina darwiniana", affermando che la biologia umana non si è sviluppata affatto rispetto alle origini, mentre il progresso della civiltà ci fa muovere sempre di meno e ci fornisce una molto più ampia disponibilità di pietanze sempre più attraenti, dei cui nutrienti non necessariamente abbiamo bisogno. La soluzione è stata proposta sulla base del principio che non può esistere una vera dieta adatta al metabolismo umano che non sia quella dei primi antenati: "Paleo diet", dieta ancestrale, cucina primordiale, ma sostanzialmente si tratta di una plant-based nutrition.
La dieta vegetariana richiama l'immagine del paradiso terrestre, quindi, storicamente, di un periodo risalente a circa otto milioni di anni fa, il Miocene, quando si presume non ci fossero frequenti contatti con pericolosi predatori. Questa epoca in cui gli ominidi non cacciavano e non mangiavano carne sarebbe stata l'età dell'oro ricordata dall'autore di quel poema attribuito a Pitagora, in cui "generosa la terra a noi fornisce alimenti abbondevoli e soavi e senza stragi e sangue offre vivande". Se la pratica vegetariana non dovesse essere in grado di ridurre l'aggressività, sicuramente incrementa la propensione ad amare tutte le creature. Quando circa duemilacinquecento anni fa venne codificata la filosofia del vegetarianesimo, da Pitagora e da Buddha, si era contestualmente introdotta l'idea della metempsicosi, nella convinzione che gli animali abbiano un'anima come gli uomini. L'imperativo morale di questa credenza poggia completamente sull'accoglienza di tutti gli esseri viventi in un'unica grande famiglia.
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La diversità genetica riposa su sottili, ma significative, modalità interagenti con le preferenze alimentari, nel senso che queste ultime possono provocare le prime, così come esserne procurate, sino a rendere l'eterogeneità della specie umana proporzionale a quella delle piante, la cui iniziale distribuzione ha imposto la variazione genetica dei fruitori. E questo anche se impercettibile al senso comune, riveste molta importanza da un'ottica puramente scientifica, e medica.
Proprio le spezie, con i loro micronutrienti variano da luogo a luogo, da epoca ad epoca, in modo da caratterizzare le varietà dietetiche umane. Alcune sostanze chimiche presenti nelle piante spontanee dimostrano capacità mutagene, in quanto sufficientemente potenti da indurre cambiamenti a livello genetico. Alcuni composti vegetali secondari vengono definiti allelochimici per la competizione che operano sulle piante vicine, per la proprietà di ridurre il consumo di vegetazione da parte degli animali di passaggio.
Una sostanza chimica secondaria, presente nei semi di soia (genistein) si lega ai recettori degli estrogeni, regolando l'espressività dei geni che influenzano i flussi ormonali. Ebbene, questa influenza sul ciclo estrogeno non avviene allo stesso modo in donne di etnia differente, ma con gradi diversi di variabilità.
Nel corso dei millenni l'inclusione o meno, nelle diete tradizionali, dei composti secondari ha offerto un forte contributo alla diversità del genere umano, dimostrandosi uno dei fattori principali per quanto riguarda espressione, mutazione e selezione genetica.
Nonostante sia del tutto recente la progressiva estinzione di molte piante, le specie commestibili esistenti non rientrano tutte nelle diete comuni e si limitano a poche centinaia le specie addomesticate, la maggior parte delle quali sono state private delle sostanze chimiche più potenti. La conversione dei territori selvatici a favore di una piatta colonizzazione agricola ha reso sempre più omogenea la dieta dell'umanità. L'approccio antropologico suggerisce invece come le cucine etniche, con la loro intrinseca diversità, abbiano avuto notevole influenza sull'evoluzione naturale e sullo sviluppo culturale dell'uomo.
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Particolari varietà di prugne selvatiche possiedono potenti mescolanze di sostanze chimiche, di cui quasi la metà sono bioattivi, in grado di stimolare varie conseguenze metaboliche, capaci di influenzare la salute.
La famiglia delle morelle, comprendente peperoncini, pomodori, patate, melanzane, è più carica di alcaloidi dal sapore amaro.
Si prova avversione per qualcosa, tolleranza, o attrazione per qualcos'altro. La maggioranza di noi non sa come giustificare esattamente la scelta dei propri pasti, né sa fornire una spiegazione logica ai propri gusti alimentari, né tanto meno conosce valori nutrizionali, o la lista dei microelementi o dei composti secondari o le modalità con cui interagiscono tra loro e con i fisiologici processi della digestione.
La scelta del cibo è condizionata, a volte, dalla disponibilità stagionale, ma per lo più è guidata da una assolutamente inconsapevole preferenza di gusto. L'esperienza personale, l'ambiente, la cultura, la predisposizione genetica, in questo, influiscono molto.
Le ricerche sul composto vanilloide dei peperoncini, la capsaicina, hanno posto in evidenza nel comportamento alimentare un paradossale elemento, a dir poco, da ossimoro gustativo, in quanto la capsaicina chimicamente può produrre dolore, e pure alleviarlo. L'ipotesi è che il sistema del gusto non servirebbe solamente come sensore, bensì anche nel verso dell'inibizione di attività, di primo acchito, incompatibili con l'alimentazione. Gli stimoli del gusto bloccherebbero, a livello encefalico, il dolore orale provocato dalla capsaicina in soggetti cosiddetti "insensibili", fino ad arrivare a quella che viene definita, non so quanto appropriatamente, "cecità" gustativa. Se tale inibizione è abolita si avranno degli individui "ipersensibili" persino a delle stimolazioni considerate normali.
Esiste un sistema per testare la capacità di gustare le sostanze "amare" che fa ricorso a feniltiourea e fenilcarbamide, oppure al 6-n-propiltiouracile.
Gli "insensibili" possono abbondare con i pasti a base di crocifere, ed ingerire così goitrina ed isotiocianato in tale quantità da interferire con il metabolismo dello iodio. I "sensibili" esprimono invece estrema ripugnanza alle verdure amare, crocifere, broccoli, cavoli, ravizzoni, senapi, pompelmi, peperoncini. Il che potrebbe essere interpretato come una sorta di difesa profilattica nei confronti del rischio di gozzo alla tiroide.
Le differenze percettive riposano su basi genetiche, fisiologiche, oppure anatomiche, per cui la lingua degli ipersensibili possiede molte più papille gustative, e di quelle fungiformi. Gli insensibili avrebbero due alleli recessivi per i geni che influenzano la densità delle papille e la percezione del 6-n-propiltiouracile, localizzati sui cromosomi 7 e 5p15. Gli ipersensibili avvertono molto di più il sapore dei grassi, e per loro gli zuccheri sono ancora più dolci; essi provano maggior bruciore alla lingua una volta a contatto con irritanti orali, come pepe nero, peperoncini, alcool. Di contro, tra gli insensibili, v'è una percentuale più alta di predisposizione all'alcoolismo. Essendo più disposti a mangiare verdure amare, pompelmi, e peperoncini, però, usufruirebbero di una protezione maggiore nei confronti di alcuni tipi di tumore.
Gli ipersensibili tendono a pesare meno, ad avere livelli più bassi di trigliceridemia e di colesterolo LDL "cattivo", quindi sembrano difendersi da soli dalle malattie cardiache.
Secondo alcune esperienze sembra che le persone alle quali gusto e odorato sono scemati, tendenzialmente perderebbero gli stimoli sessuali predisponendosi a gravi forme di depressione. I due sensi (gusto ed odorato) coinvolti in queste manifestazioni, interagiscono direttamente con le aree encefaliche addette al controllo delle emozioni primordiali (paura, rabbia), che originariamente dovevano servire a mettere in guardia dai pericoli.
La maggioranza degli amanti del gusto piccante sembra formata dai cosiddetti insensibili, per cui le aree geografiche in cui si consuma più peperoncino accolgono nella popolazione una particolare risposta al 6-n-propiltiouracile. Ma mangiare peperoncino stravolge, comunque, il sistema delle endorfine, inducendo minore tolleranza al dolore orale.
Le radici di questi problemi di gusto ci conducono piuttosto lontano. Per migliaia di anni i peperoncini selvatici hanno interagito con la fauna, sviluppando meccanismi di difesa per respingere gli animali, i mammiferi, che ne avrebbero distrutto i semi, interrompendone la riproduzione, e meccanismi di attrazione atti ad invitare degli altri animali, gli uccelli, che cibandosene avrebbero favorito la dispersione dei semi garantendone la sopravvivenza.
Tenere e malferme, le piantine di peperoncini selvatici son costrette a trovare riparo sotto l'ombra di grandi alberi per proteggersi dagli estremi del gelo e delle temperature troppo elevate, così come per proteggersi dai grandi erbivori che le calpesterebbero. La loro preferenza la esprimono per un genere di copertura protettiva densa e spinosa, quale quella offerta dal bagolaro.
I principali sparpagliatori di semi sono fringuelli, mimi, tordi beffeggiatori, cardinali rossi e rosa, i quali, fin dall'inizio dell'estate, e fino all'autunno, sentono l'ardente desiderio di carotene, la vitamina presente nei peperoncini che accresce l'intensità del colore del loro piumaggio. Mentre mangiano, gli uccelli scuotono disordinatamente i semi non ingoiati e inondano il terreno, e quelli espulsi con le feci sono pronti a germinare. I mammiferi invece danneggerebbero irreparabilmente i semi, senza sparpagliarli nel posto più adeguato. Gli uccelli percepiscono appena il sapore piccante, i mammiferi ne provano disgusto.
Si tratta di una forma di deterrenza diretta. La capsaicina dissuade i mammiferi, perché viene letta dalle vie nervose sensibili al dolore, alla stessa stregua di un aumento di temperatura, mentre gli uccelli trovano la dose per loro sufficiente di carotene.
Gli esseri umani, pur mammiferi, si sono lentamente assuefatti al bruciore orale; han fatto dapprima ricorso al peperoncino come medicinale topico, poi come vermifugo, successivamente lo usarono quale insaporitore e condimento. Cosicché una sostanza sgradevole, da un punto di vista innato, introduce interessanti novità in una dieta blanda e monotona. Forse spinge l'equilibrio emotivo da una abitudine distratta verso uno stimolo eccitante che risveglia l'attenzione.
I peperoncini, comunque, contengono sostanze che ritardano il deterioramento dei cibi, ne mascherano l'odore ed il gusto sgradevoli. Come le salse, le spezie, i baccelli, hanno forza batteriostatica, limitando le capacità tossiche dei microbi che si annidano nei cibi; ripuliscono da agenti patogeni e parassiti, grazie ad acido ascorbico, capsaicinoidi, flavonoidi e ticoferoli. Facendo sudare, hanno un effetto rinfrescante, e questo spiega la loro diffusione laddove i climi sono più torridi. Forniscono micronutrienti essenziali ed antiossidanti protettivi.
Eppure la preferenza per il peperoncino non trova motivazione nel desiderio per le conseguenze della sua assunzione. Con quello che può essere definito uno spostamento affettivo, si prova masochisticamente piacere a procurarsi lo stesso senso di bruciore che altrimenti si avvertirebbe come dolore.
Forse anche per spiegare questo strano fenomeno, Sherman ha coniato il termine di Gastronomia darwiniana. Nel meridione ed in oriente si fa molto uso di cipolle, aglio, pepe, peperoncino, più che in qualsiasi altra parte del mondo, e ciò potrebbe trovare giustificazione in questo fattore ecologico dell'attività antimicrobica delle spezie. Nel migrare verso nuovi paesi, la popolazione del meridione e dell'oriente ha portato con sé alcune delle piante tradizionali secondo quello che Crosby ha definito una sorta di "imperialismo ecologico". Ambiente, cultura, genetica, comportamento alimentare contribuiscono a determinare il livello di accettazione o disgusto per una certa pietanza.
L'insoddisfazione contemporanea, in tema alimentare, sarebbe stata determinata dalla frattura con le tradizioni e dall'abbandono dei tabù. Svuotando di significato sia il cibo, sia il sesso, si è dato inizio all'indulgenza a piaceri scialbi e decadenti. Cibo e sesso sono i due impulsi principali dell'umanità ed il nucleo stesso della società è imperniato intorno all'attività sessuale ed alla condivisione dei pasti. Con la perdita dei contenuti socio spirituali dell'alimentazione si è andato deteriorando il comportamento a tavola e di conseguenza il livello della civiltà. Mangiare insieme nutre il fisico e lo spirito. La scelta dei cibi fornisce una dimensione sensoriale alla nostra percezione culturale e ne individua l'andamento stagionale, ricollocandolo in un ambito liturgico e sacrale.
© Giuseppe M. S. Ierace
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