Le figure retoriche tra
letteratura e micropsicoanalisi
18 ottobre 2008
Le figure retoriche accomunano il lavoro dell'analista a quello del letterato.
Desidero introdurre una nota personale per spiegare il mio interesse per esse. Più mi addentro nell’attività psicoanalitica maggiormente mi accorgo di quanto la componente soggettiva dell’analista non ostacoli la sua neutralità. Al contrario, nel corso delle sedute, l’attenzione fluttuante dell’analista, quando è accompagnata dalla piena percezione delle proprie emozioni e della propria storia personale, guida le associazioni dell’analizzato in piena e libera neutralità.
Al liceo, il mio interesse per la psicologia dell’uomo era cominciato con la lettura di romanzi. Scrittori quali Dostoevskij, seppure vissuti secoli prima di me e pur non avendomi mai conosciuto, riuscivano, attraverso la descrizione di sensazioni, stati d’animo, vicende di personaggi a rappresentare me stesso meglio di quanto io riuscissi a fare. Non ero in grado di utilizzare le stesse parole che tali scrittori sceglievano. Avevo provato ad imitarli ma senza esserne capace: soltanto negli anni successivi mi sarei accorto che la parola più adatta, si rivela spontaneamente quando nulla impedisce di riconoscere la presenza di uno stato d’animo.
In taluni autori ero colpito da come le descrizioni fossero così minuziose e approfondite da dipingere veri e propri ritratti psicologici senza alcuna necessità di effettuare ulteriore interpretazione. Le parole, talvolta poche, scelte dagli autori, colpivano per la potenza espressiva ed erano capaci di stringere in un insieme di lettere significati profondi. Talvolta non si trattava neppure di parole ma del semplice accostamento di lettere, era ad esempio il caso di una poesia di Palazzeschi che cominciava così: ”Cloff”. La prima volta che l’ho ascoltata non sapevo se “Cloff” fosse un nome straniero, un cibo che non avevo mai assaggiato, un arnese di una regione italiana e solo alla fine della poesia mi ero accorto che si trattava di un suono. Quel suono onomatopeico prima di capirlo mi trasmetteva un’emozione senza portare con sé un significato linguistico. La poesia “La fontana malata” di Palazzeschi mi trans/feriva emozioni simili a quelle con cui rimango in ascolto durante le sedute di qualche sospiro, un mugugno o talvolta il silenzio dell’analizzato.
Insomma ciò che differenziava la mia vita da adolescente da quella di un poeta era la capacità di quest’ultimo d’esprimersi. Ancora oggi ritengo che il poeta non sia altro che una persona profondamente sincera che parla a se stessa servendosi dell'inchiostro; l'analizzato fa la stessa cosa, ad alta voce con l'analista.
L’essere umano è un narratore che da millenni trasmette la sua memoria attraverso le generazioni. L’orma del suo passo nella storia sono i sogni.
Cos’è la filogenesi se non un libro da sempre e per sempre aperto?
Sigmund Freud scoprì nelle libere associazioni e nell’interpretazione dei sogni le grandi strade d’accesso all’inconscio e nell’inconscio la matrice della vita mentale.
L’ipotesi della psicoanalisi è che la percezione dei nostri processi di pensiero avvenga prevalentemente attraverso un registro iconico, le parole ne sono la cartina al tornasole, non l’unica ma la più fruibile. Tra i collegamenti di parole, la loro relazione, il loro uso, il loro colore, la loro origine, la loro durata, il loro spessore, la loro assenza durante le sedute, si affaccia la vita psichica.
Nelle sedute che in micropsicoanalisi possono allungarsi anche per tre ore così che le resistenze respirino più a lungo, si possono osservare produzioni linguistiche dalla forte rilevanza. Si tratta per lo più di figure retoriche, espressioni linguistiche che condensano significati psichici cruciali, vere e proprie cerniere, capaci di mettere in comunicazione differenti stati psichici.
Le figure retoriche possono essere la rappresentazione linguistica dei meccanismi di difesa, l’impronta delle resistenze.
Suggestionato da quest’idea, ma senza pretendere certo d’essere esaustivo, ho desiderato oggi usare un “meccanismo retorico”, quello della similitudine, per accostare le grandi categorie delle figure retoriche che sono più di cento, con la definizione dei meccanismi di difesa del Dizionario di psicoanalisi e micropsicoanalisi.
Il primo gruppo comprende le figure retoriche dell’omissione: esse riducono e rendono più immediato il pensiero, tralasciando volutamente dei concetti fondamentali. Tra queste ricordiamo la reticenza, la preterizione (si dà maggior rilievo ad un argomento affermando di volerlo passare sotto silenzio) e la litote.
Nel diniego della realtà l’io si difende contro il vissuto di un’esperienza che riattiva la castrazione filogenetica rifiutando di prenderne atto.
Nelle figure retoriche della sostituzione ci si serve d’accorgimenti mediante i quali un’idea viene sostituita da altre che normalmente sono estranee all’insieme del discorso. Tra di esse: la perifrasi, l’antonomasia, la metonimia, la metafora, la sineddoche e l’allegoria.
Con la scissione dell’io, l’io si difende correlativamente al diniego, per sfaldatura in una parte che prende atto del vissuto traumatizzante e in un’altra che lo rifiuta e vi sostituisce un fantasma.
Nella scissione dell’oggetto l’io si difende contro la sua ambivalenza essenziale dividendo l’oggetto co-pulsionale in un oggetto buono e uno cattivo
Le figure di chiarificazione semantica permettono d’identificare più facilmente l’idea base per rendere immediata la comprensione di ciò che si vuole significare, esse sono la definizione e l’enumerazione.
Isolamento: l’io si difende dal tabù del toccare separando gruppi di rappresentazioni-affetti o evitando certi contatti.
Infine le figure di amplificazione orizzontale aumentano l’efficacia del discorso sottolineando particolari che si reputano importanti o insistendo su alcune idee fondamentali, esse sono la ripetizione, l’argomentazione, l’enfasi..
Nell’idealizzazione l’io si difende dalla scissione dell’oggetto o cerca di ripararlo dotando questo oggetto dell’onnipotenza narcisistica.
Se assumiamo che la parola sta al pensiero come il conscio all’inconscio, le figure retoriche rappresentano nel linguaggio la frontiera più prossima alla vita inconscia dell’uomo. La parola è tanto più difficilmente reperibile quanto più materiale rimosso sussiste; essa aderisce al pensiero ed il pensiero ad essa.
Consideriamo ad esempio la metafora. “La regina delle figure retoriche” è un’associazione che segnala l’addentrarsi del soggetto in luoghi più profondi della psiche, tale processo comporta lo spostamento del medesimo affetto sotto altre sembianze.
Tuttavia non sempre la seduta comporta una ristrutturazione del linguaggio o più precisamente non subito.
L’anno scorso lavoravo con un soggetto ossessivo, che si atteneva ad una descrizione precisa di ciò che riteneva d’aver fatto durante il giorno. Tale paziente, serio e implacabile, si comportava come una telecamera: invece di esprimere le proprie impressioni pretendeva di registrare delle immagini obbiettive. Egli utilizzava un linguaggio rigoroso e privo d’emozione, come se fosse relativo a fatti che non lo riguardavano: il paziente si opponeva alla possibilità di metaforizzare rimanendo fermo in una stasi espressiva.
Nel tentativo di non dissociarsi e di opporsi alla spontanea e pulsante associazione creativa, presente in ciascun soggetto ed in ciascun momento, la pulsione di morte relegava il loquace analizzato a ripetere sempre le stesse informazioni formali da ben due settimane (per quattro sedute settimanali di tre ore ciascuna). Mi chiedevo fino a che punto questa persona, che vestiva impeccabilmente sempre con delle giacche grigie, potesse astenersi dall’effettuare analogie, trattenersi nel creare assonanze, impedirsi di procedere attraverso similitudini, insomma di trasmettere con immagini linguistiche la propria vita emotiva.
In assenza d’elementi percettivi dinamici, nell’immobilità della posizione del corpo dell’analista, è fisiologico che sotto il fluire delle libere associazioni vengano a galla sensazioni, ricordi, pensieri. In seduta accade la stessa cosa di un oggetto che, sotto acqua, una volta eliminata la forza che lo trattiene, ritornerà spontaneamente ed immediatamente a galla.
Tuttavia ciò non accadeva e, al contrario, nelle ultime sedute il linguaggio del mio paziente pretendeva ancora più d’essere meticoloso ed egli rimaneva rigidamente sdraiato, sempre con l’ultimo bottone della camicia chiuso: più percepiva tensione e maggiormente pretendeva di controllare la realtà raccontando episodi della giornata con esagerata precisione.
Nei momenti di massima tensione si registra anche il culmine della fragilità e tali “rafforzamenti delle fortificazioni difensive” sarebbero stati prodromici da lì a poco, ad un tonfo delle difese stesse. Arrivò, infatti, una seduta in cui l’aria della stanza fu riempita di parolacce e forti espressioni di rabbia. Si trattava di un linguaggio eccessivo, con il quale il paziente aveva difficoltà ad identificarsi ma che aveva aperto un nuovo spazio d’espressività.
Nello sviluppo dell’analisi era interessante osservare come da quel momento il linguaggio si sarebbe trasformato e come le figure retoriche annunciassero puntualmente l’avvicinamento a luoghi della mente rimossi.
In una fase depressiva successiva il paziente disse: “Mi fa impressione osservare in autunno le foglie che cambiano colore e perdono la vita staccandosi dall’albero in cui sono cresciute” affidando alla metafora del passaggio di stagione la propria condizione dolorosa di distacco dal rifugio che le proprie difese gli garantivano.
Il linguaggio stava diventando così progressivamente più libero, pulsante e con più linfa. Lo sviluppo associativo non è un processo meramente catartico o di semplice scomposizione bensì un atto creativo attraverso il quale il soggetto crea una relazione.
La seduta lunga facilita tale processo creativo e produce un effettivo miglioramento dell’eloquio dell’analizzato. Ciò non avviene certo per l’apprendimento di nuove parole, dato che l’analista trascorre quasi tutto il tempo in silenzio. Se escludiamo la coppia in gravidanza madre-feto, non esiste nessun altro incontro, che non siano le sedute, in cui viene scambiato un così basso numero di parole rispetto al tempo trascorso con un altro essere umano.
Insomma più l’analisi procedeva e più l’analizzato “non si arrampicava più sugli specchi”, “non si sentiva più come un bambino davanti alle difficoltà della vita ed aveva l’impressione di fare passi da gigante”, “non parlava più a denti stretti”, sul lettino non si sentiva “messo alle corde o con le spalle al muro”, si lasciava sempre più prendere “dalla rete del ricordo e finalmente “giocava a carte scoperte”.
Il linguaggio si rende metaforico quando nelle associazioni dell’analizzato si palesa il transfert: l’analista su cui l’analizzato proietta i propri vissuti è come la pagina bianca del libro del poeta, c’è un’altra persona con cui ci si può narrare.
In questa fase dell’analisi la presenza dell’analista si manifesta attraverso il sogno. Nel teatro dell’inconscio l’unico linguaggio possibile è quello delle immagini retoriche.
L’uso di figure retoriche implica l’apertura sull’altro e comporta l’abbandono di una posizione narcisistica; la metafora è come l’oggetto transferale o il gioco che il bambino usa per creare “il terzo”.
Per comprendere la metafora e poterla rappresentare bisogna entrare in relazione e accettare il rapporto tra la parte e il tutto, tra sé e l’altro.
L’acquisizione della capacità di metaforizzare permette il passaggio da un piano immaginario a quello simbolico.
Ogni poeta è in relazione, scrive in primo luogo per se ma sempre con il pensiero rivolto all’immagine dell’altro.
Verso la fine dell’analisi il soggetto riesce sempre più e meglio a liberarsi dalla tensione interna; in tale percorso la parola ed il vissuto interno corrispondono. Capita durante le sedute di ascoltare delle frasi perfette in cui la scelte delle parole stabilizza lo stato d’animo, sono questi dei momenti in cui nelle sedute si introduce “una sensazione estetica”, di bellezza. Keats nella poesia “Ode all’urna greca” recita: “la verità è bellezza e la bellezza è verità”.
Il tema del bello interessava molto anche Freud che amava collezionare pregiati oggetti d’arte antichi. Per quanto riguarda il suo interesse per la letteratura, il Maestro se ne occupava spesso di Mercoledì, insieme ai pionieri della psicoanalisi.
Le pagine degli scrittori erano una fonte preziosa che Freud accostava al materiale di seduta che è “vero” in quanto espressione di un soggetto indipendentemente dalla veridicità del fatto raccontato. Freud cercava la “verità psichica” non nei fatti, bensì nella qualità affettiva delle comunicazioni, egli conosceva l’attitudine fabulatoria della psiche per cui scrivere non significa necessariamente essere portatori di una verità univoca: la narrazione, come ci insegnano i nostri pazienti, è una riscrittura della propria vita, una rielaborazione della memoria che orienta e ricostruisce continuamente la storia individuale.
Freud aveva una grande padronanza della retorica e dell’uso di metafore: pensiamo al celebre caso clinico, sotto forma di racconto, de “L’uomo dei lupi”. (è curioso pensare che Freud non sia stato insignito del premio Nobel per la scienza ma del Goethe per la Letteratura!).
L’inizio stesso della psicoanalisi si basa sull’ipotesi che i sintomi siano metafore. Per Freud le figure retoriche non hanno un significato ornamentale bensì funzionale ed essenziale; esse rappresentano lo strumento più fedele alla realtà, perché la percezione stessa della realtà è metaforica.
Così dietro il nome Edipo vi è una costellazione di vissuti e “la fase orale” è una sineddoche.
Durante le libere associazioni emergono equivalenze psicobiologiche in cui un termine è uguale all’altro e può sostituirlo funzionalmente. Tali equivalenze obbediscono dinamicamente ai meccanismi elementari dell’inconscio quali lo spostamento e la condensazione e veicolano strutturalmente vissuti onto-filogenetici cioè esperienze pulsionali utero-infantili ed ancestrali. Ad esempio l’equivalenza pene=seno=feci=bambino=regalo=denaro.
Come potrebbe fare a meno l’analizzato di metafore, parallelismi, similitudini per riprendere contatto con un’epoca remota come quella dei primi anni o della preistoria del suo sviluppo; mi riferisco alla vita in utero quando il linguaggio del feto è quello della propriocezione, della cinestesia e delle sensazioni cellulari?
Freud raccoglie ed interpreta scientificamente il testimone dei poeti che con la forte espressività dei propri scritti mettono in comunicazione le generazioni. Nei nostri studi, ogni analizzato agisce come il poeta vate che si adopera, passando dalla propria memoria, a prendere contatto con la memoria collettiva.
L’insegnamento di Freud condivide con la letteratura la stessa natura. Entrambe le attività create dall’uomo e rivolte all’uomo stesso rappresentano una metafora. La coscienza degli intrinseci limiti dell’essere umano rende la psicoanalisi e la micropsicoanalisi, che ne è un approfondimento, la metafora scientifica più prossima alla natura umana.
© Andrea Rocchitelli