Va ad Home
Direttore scientifico: Prof. Nicola Peluffo | Direttore editoriale: Dott. Quirino Zangrilli 
Scienza e Psicoanalisi
 OSSERVATORIO
Osservatorio di Psicoanalisi applicata
 Home > Indice Osservatorio >  Questo articolo < indietro
 

Depressione nell'anziano e società

22 maggio 2002

Essendo questa tematica di carattere multi-disciplinare, tanti concetti devono necessariamente venire mutuati da discipline umanistiche. Difatti, l’osservazione dei cambiamenti sociali, avvenuti nel corso degli ultimi decenni, ci rivela come essi abbiano di molto velocizzato la scansione dei nostri tempi e quanto gli indubbi progressi tecnologici abbiano impresso alla vita quella tendenza entropica anti-ecologica che gli indiani del nord-america definiscono col termine Koyaanisqatsi. Inoltre, il crollo delle ideologie politiche ha reso possibile il sopravvento di quel pensiero, diffuso nella prassi quotidiana, che Vattimo chiama “debole”. Unitamente a queste trasformazioni, gli altri punti a sfavore delle generazioni degli ultrasessantenni, sono l’inevitabile solitudine e la stessa intrinseca fragilità fisica, con la conseguente involuzione psicologica, le quali insieme rendono difficile ogni facoltà di adattamento alle novità, aggravando il sentimento di estraneità , e quel naturale misoneismo tipico dell’età avanzata.
Max Weber diceva a proposito: ”Una volta gli uomini morivano sazi della vita, oggi muoiono semplicemente stanchi”.
Del resto la vecchiaia dell’uomo comune è continuamente costretta su binari scelti da altri, relegata da un’idea dell’anzianità che si è generata ed incrementata negli ultimi anni.
Come ci si ingrigisce, si rendono più fragili i rapporti con una società che sotto tutti gli aspetti ha ormai etichettato l’anziano quale elemento soprannumerario.
Alla condizione “comune” di vecchio, non di “grande” vecchio, si stenta a dare una precisa collocazione, perché crea imbarazzo, se non addirittura ribrezzo.
Per essere accettati, ottenere qualche consenso o una minima cortesia, rivendicare diritti, o semplicemente non dare fastidio ed irritare, ci si deve muovere cautamente ed in modo assai accorto.
Sfiancati, o impediti, si perde quella creatività che consentirebbe di produrre idee, avere interessi e quindi di mantenersi in grado di sconfiggere la depressione.
La vecchiaia, già prima di un decadimento biologico, potrebbe riconoscersi come stile di vita esistenziale imposto dagli altri, da una società che concede uno spazio espressivo molto ridotto, oltrepassato il quale si viene giudicati o trascurati, disordinati, sciatti, “arteriosclerotici”, oppure ambiziosi, vanitosi, giovanili a tutti i costi, e pertanto ridicoli.
La prossimità alla morte che la vecchiaia iconizza scatena quell’angoscia primordiale, originariamente inscritta nel nostro destino di mortali e che non trova forma migliore d’esorcismo se non quella di scaricarsi su chi maggiormente la evoca.
In quest’ambito, la depressione senile potrebbe essere definita sia come diretta conseguenza del decadimento biologico, sia come una condizione reattiva, poiché indotta dall’ambiente circostante, sia persino auto-imposta come situazione esistenziale ineludibile. L’uomo difatti è un animale culturale, consapevole di dover morire, per cui, prima di una malattia vera e propria, la depressione potrebbe essere considerata, oltre che una delle tante forme di sofferenza psichica per antonomasia, ovvero di disagio dell’anima, una condotta razionale adottata da chi anticipatamente conosce quale sarà l’esito finale in cui si coglie il senso della vita.
La società, come la religione, fuggono da questo riconoscimento volgendo il loro sguardo verso illusori ed improbabili “altrove”.
Il nostro discorso esclude ovviamente le forme endogene, cicliche. E’ più pertinente certo alle cosiddette “nevrosi” studiate dai seguaci di Freud. La psicoanalisi, del resto, è nata in un determinato periodo storico ed, indagando i mali sociali del suo tempo, aveva individuato l’eziologia delle nevrosi nel conflitto tra pulsioni inconsce e censure del super-io. Conflitto tra il desiderio di infrangere la norma e la norma stessa che lo inibisce, tipico dello spazio espressivo della “società della disciplina”, sostenuta dalla contrapposizione permesso-proibito.
L’ordine esterno, la conformità alla legge, induce, con l’eventuale infrazione, dei sensi di colpa, cosicché il nucleo centrale delle forme depressive corrisponde al vissuto di colpevolezza.
Eppure la saggezza popolare ci ricorda che “il cuore non invecchia mai”.
Ebbene, quante esigenze affettive ricevono risposta, una volta superata una certa età, consentendo quel ricambio emotivo con il mondo che è poi la prima condizione perché una qualsiasi esistenza si senta giustificata ?
Lo stesso mantenimento cognitivo è strettamente condizionato dall’accettazione emotivo-affettiva. (E vale questo per gli adolescenti che frequentano le scuole; vale ancor più per gli anziani, il cui potenziale cerebrale si deteriora non tanto per decadimento biologico, quanto per interruzione dei flussi affettivi). L’efficienza cognitiva diminuisce quindi man mano che si vanno estinguendo le risposte emotive.
In appendice, va ricordato come la sofferenza psichica, qualunque essa sia, alcuni la riconducono ad un’unica malattia mentale che trova espressioni diverse a seconda del terreno biologico, dell’ambiente sociale, della storia individuale. Pertanto, si potrebbe nutrire il sospetto che siano delle motivazioni affettivo- emotive ad incidere, più di quanto non si ritenga di primo acchito, sull’ ”inizio della fine” e sulla qualità stessa dell’invecchiamento.
Comunque, così come è cambiata la società, si è pure modificata la vecchiaia. Non possiamo escludere che la depressione abbia subìto un’altrettanto analoga “psico-pato-metamorfosi”.
Le trasformazioni socio- culturali degli ultimi trent’anni circa hanno visto prendere piede la contrapposizione tra possibile ed impossibile, per cui la misura del rapporto tra individuo e società non è più contrassegnata dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma da iniziativa, progetto motivazione, risultati, che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé.
In uno scenario sociale dove non v’è più norma, né divieto e tutto è consentito, il nucleo depressivo degenera in un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di portare a termine secondo le attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. Perciò sintomi come la tristezza, il dolore morale, il senso di colpa hanno lasciato il posto ad ansia, insonnia, e, soprattutto, inibizione e fatica di essere se stessi.
Se prima la norma era fondata sull’esperienza della colpa e della disciplina interiore adesso la ritroviamo imperniata sulla responsabilità individuale, sulla capacità di iniziativa, di autonomia nelle decisioni e nell’azione. Il valore morale della persona viene ora riposto nella realizzazione.
La depressione si configura non più come perdita della gioia di vivere, e come sentimento di tristezza, bensì in una patologia dell’azione, in un’inibizione con perdita dell’iniziativa. La causa di ciò, che prima era originata dal conflitto, adesso è prodotta dal fallimento della responsabilità e del mancato sfruttamento di quella che sarebbe potuta essere una “opportunità”. Si fa così riferimento, non tanto a ciò che è permesso, ma a ciò che è possibile. E la “domanda interiore” che ha per predicato un comportamento qualsiasi, non assume per verbo “ho il diritto di…”, ma “sono in grado di… compiere una determinata azione”.
Dovremmo, in base a quanto esposto, giungere alla necessità di ridefinire il medesimo concetto di depressione in quanto patologia dell’insufficienza, perché esprime il disagio di un individuo che non è sufficientemente se stesso, mai sufficientemente colmo di identità, attivo e deciso, poiché troppo titubante.
Una vita vissuta a propria insaputa è priva di senso. Eppure è questo a succedere in Occidente, dove le categorie egemoni sono quelle della funzionalità e dell’utilità. L’idea che la nostra cultura si è fatta della vecchiaia è quella di un tempo inutile. Grazie ai progressi della medicina ed ai servizi sociali più efficienti sopravvive una schiera di umanità paradossale,”paradossi” viventi, sospesi come sono in una zona crepuscolare, di cui non si capisce lo scopo, la meta finale.
A che serve allora prodigarsi nell’assistere al prolungamento di questo “limbo”, di questa agonia psicologica.
La società si dà da fare per ridurre le cause dell’invecchiamento o per ritardarne, per lo meno, l’arrivo. I costi sociali, dalle pensioni all’assistenza socio- sanitaria, sovvertono il ritmo produttivo delle società più avanzate tecnologicamente, le quali si trovano adesso impreparate di fronte ad una lotta di classe (ma meglio sarebbe dire di generazioni) imprevista, differente da qualunque altra sostenuta in precedenza, come quella perpetrata dalle ideologie “forti”, ormai crollate.
Gli anziani sono destinati a sentirsi esclusi in una società nella quale “si è ciò che si fa” e “se non fai niente sei una nullità”. Li si taglia fuori quando non possono sperare in una qualsiasi occupazione e la perdita di identità che ne consegue equivale al totale disorientamento, alla più profonda disperazione.
Viviamo una fase storica dominata dalle ragioni del mondo economico. E ragioni contraddittorie sono quelle che vedono, da una parte, come all’anziano si offra una prospettiva di vita sempre più lunga, mentre, dall’altra, gli si tolga il senso stesso dell’esistenza, poiché per lui non c’è nulla, e nessuno lo vuole. Da qui il senso di impotenza, insufficienza, inutilità, che prende il posto dei sensi di colpa nel vissuto depressivo.
Venendo a mancare il concetto di limite, il vissuto soggettivo è dunque di inadeguatezza e di inibizione. Dalla filosofia del “tutto è possibile” scaturisce la concezione dell’oppressione sociale quale causa di follia: il “pazzo” non è malato, ma diverso e soffre per la mancata accettazione della sua diversità. Allo scenario sociale dove non c’è più norma,né divieto e “tutto è consentito” si affianca il declino dell’ideologia “antipsichiatrica” in cui il malato è oppresso ed il problema della follia viene spostato sul problema della capacità. Attualmente la preoccupazione di sbagliare viene sostituita con la preoccupazione di essere “a-normale”.
L’umanità è nata con un concetto di “gruppo”. Ne è controprova l’uso del “noi”, nonché l’insegnamento antropologico e l’osservazione di Lévi-Strauss che l’espulsione dal gruppo equivale all’inesistenza, alla morte civile, se non a quella vera e propria.
I greci parlavano in termini di “polis”, e solo col cristianesimo, e la credenza nell’anima, nasce la nozione di individualità. Per noi occidentali, che concepiamo la vita come luogo del reperimento del senso, è tragico confrontarci con l’età della tecnica che annulla ogni visione del mondo.
Ci viene imposto di garantire una prestazione perché alla tecnica interessa che ci siano degli esecutori efficienti di azioni già codificate. Non interessano le loro identità e tanto meno la loro creatività, perché ciò che conta soprattutto è la sostituibilità degli operatori.
Quando ci confrontiamo con gli altri non lo facciamo in quanto noi stessi, ma in quanto svolgiamo una certa funzione e parliamo con forme linguistiche formalizzate ed ordinate alle prestazioni.
In quanto prestatori di funzioni, non siamo mai realmente chiamati in causa, non è in gioco la nostra soggettività. Le nostre identità ne risultano compresse. Prima ancora di cominciare ad ascoltare sentiamo la necessità di affermarci come “Io”. L’altro tende a non esistere, è solo uno spettatore, ma anche la conferma dell’esistenza nostra.
La relazione che si stabilisce è così asimmetrica. Siccome nel pubblico siamo funzionali, nel privato l’identità si esprime in forme parossistiche. Un “io” sano avrebbe bisogno della mediazione sociale, delle diluizioni dello scambio interpersonale, perché l’identità si costruisce attraverso il riconoscimento esterno. Ma il sociale attuale ci riconosce soltanto in termini di efficienza, di carriera, di successo.
Una società narcisistica, qual è la nostra, stimola comportamenti perversi. L’attuale civilizzazione, con la sua intensificazione dei ritmi, la crescita della concorrenza, i metodi di management, fatto apposta per stimolare l’individualismo e la visibilità, esaspera la parte perversa narcisistica che tende ad annientare ogni reciprocità e simmetria, preferendo l’apparenza, intollerante verso la debolezza. Conta mostrarsi, brillare, essere in forma, ai vertici. Quelli che non ce la fanno, che arrancano di fronte ad un mondo che imperativamente sostiene che bisogna riuscire in tutto, non possono che essere depressi.
Volendo estremizzare, potremmo arrivare a scoprire, grazie ai condizionamenti esterni della società, quale massa abbiamo generato di psicopatici, narcisisti. Perversi,”anaffettivi”, e pertanto immuni dalla depressione, i quali proiettano sull’altro tutta la sofferenza che non si vuol provare, fanno soffrire per non soffrire a loro volta, esistono soltanto demolendo l’altro, ed esercitano una sorda violenza (asimmetrica), imponendo la propria autorità e paralizzando la volontà del più debole.
L’altro tipo psicologico caratteriale che si va così delineando, riguarda, dalla parte opposta, nonni e genitori depressi, vittime delle nuove popolazioni di anaffettivi, con tutta la complicazione che deriva dal rapporto conflittuale tra generazioni, e, soprattutto, tenendo conto che i figli costituiscono pur sempre il prolungamento narcisistico per eccellenza.
Il rimedio, a questo punto, se mette a tacere il sintomo, induce un superamento, con una risposta alle esigenze efficientistiche ed afinalistiche. Il rischio che si corre è di impersonalizzazione, inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omogeneizzazione delle norme di socializzazione. La cura dovrebbe invece mirare a rendere capaci di essere se stessi, di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite esistenziali, sulla fatica di vivere.
Memore del pensiero di Montagne : “A misura che il possesso della vita è più breve, tanto più profondo e pieno voglio renderlo”, James Hillman dice che il fine di invecchiare è quello di svelare il nostro carattere, che ha bisogno di una lunga gestazione per apparire in tutta la sua peculiarità. Ma questa non sarebbe un’idea del tutto nuova. Socrate stesso, nel dialogo con Cefalo, il quale descrive la vecchiaia come causa di tutti i mali, ribatte che, al contrario, la causa non è la vecchiaia, tutt’al più il carattere dell’individuo.
Hillman propone allora di curare non gli individui, ma le idee malate con cui gli individui visualizzano se stessi e le fasi della loro vita. Questo però è un lavoro che forse potrebbe far meglio la filosofia, in quanto correttivo di idee stantie, divenute egemoni per forza d’abitudine, per pratica, condivisione o semplicemente solo per pigrizia.
L’esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale si potrebbe reperire nelle ragioni di una “pietas” che sappia distinguere quanto dell’afflizione della vecchiaia venga incrementato dall’idea stessa che ci siamo fatta di essa, una “pietas” che riconosca come tante idee convenzionali, tanti luoghi comuni devono essere cambiati, semplicemente proprio perché “produrre idee” è già di per sé, una sufficiente giustificazione del vivere.

© Giuseppe M. S. Ierace

     
 

 
 
In questa Rubrica vengono pubblicati articoli di Autori appartenenti a scuole teoriche diverse. Il Comitato scientifico di "Scienza e Psicoanalisi" si occupa unicamente di verificare l'attendibilità delle fonti.
 
 

 
     
 
   
 
 

 
     
 

  ATTENZIONE:  L'intero contenuto del sito è tutelato da copyright: ne è vietata la riproduzione sotto qualsiasi forma.

Wikipedia Wikipedia può utilizzare l'intero contenuto rispettando le specifiche dell'autorizzazione concessa.

Per eventuali autorizzazioni scrivere al Direttore Editoriale.

 
     
 

 
 
   
EDITORIALE
ATLANTE
PSICOSOMATICA
FREUD
INFANZIA
NEUROSCIENZE
OSSERVATORIO
scienza
PSICHIATRIA
Psicologia
etnopsicoanalisi
ScienzaNews
Scienze Biologiche
Newsletter
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 
incontro