Depressione nell'anziano
e società
22 maggio 2002
Essendo questa tematica di carattere
multi-disciplinare, tanti concetti devono necessariamente venire
mutuati da discipline umanistiche. Difatti, losservazione
dei cambiamenti sociali, avvenuti nel corso degli ultimi decenni,
ci rivela come essi abbiano di molto velocizzato la scansione
dei nostri tempi e quanto gli indubbi progressi tecnologici
abbiano impresso alla vita quella tendenza entropica anti-ecologica
che gli indiani del nord-america definiscono col termine Koyaanisqatsi.
Inoltre, il crollo delle ideologie politiche ha reso possibile
il sopravvento di quel pensiero, diffuso nella prassi quotidiana,
che Vattimo chiama debole. Unitamente a queste trasformazioni,
gli altri punti a sfavore delle generazioni degli ultrasessantenni,
sono linevitabile solitudine e la stessa intrinseca fragilità
fisica, con la conseguente involuzione psicologica, le quali
insieme rendono difficile ogni facoltà di adattamento
alle novità, aggravando il sentimento di estraneità
, e quel naturale misoneismo tipico delletà avanzata.
Max Weber diceva a proposito: Una volta gli uomini morivano
sazi della vita, oggi muoiono semplicemente stanchi.
Del resto la vecchiaia delluomo comune è continuamente
costretta su binari scelti da altri, relegata da unidea
dellanzianità che si è generata ed incrementata
negli ultimi anni.
Come ci si ingrigisce, si rendono più fragili i rapporti
con una società che sotto tutti gli aspetti ha ormai
etichettato lanziano quale elemento soprannumerario.
Alla condizione comune di vecchio, non di grande
vecchio, si stenta a dare una precisa collocazione, perché
crea imbarazzo, se non addirittura ribrezzo.
Per essere accettati, ottenere qualche consenso o una minima
cortesia, rivendicare diritti, o semplicemente non dare fastidio
ed irritare, ci si deve muovere cautamente ed in modo assai
accorto.
Sfiancati, o impediti, si perde quella creatività che
consentirebbe di produrre idee, avere interessi e quindi di
mantenersi in grado di sconfiggere la depressione.
La vecchiaia, già prima di un decadimento biologico,
potrebbe riconoscersi come stile di vita esistenziale imposto
dagli altri, da una società che concede uno spazio espressivo
molto ridotto, oltrepassato il quale si viene giudicati o trascurati,
disordinati, sciatti, arteriosclerotici, oppure
ambiziosi, vanitosi, giovanili a tutti i costi, e pertanto ridicoli.
La prossimità alla morte che la vecchiaia iconizza scatena
quellangoscia primordiale, originariamente inscritta nel
nostro destino di mortali e che non trova forma migliore desorcismo
se non quella di scaricarsi su chi maggiormente la evoca.
In questambito, la depressione senile potrebbe essere
definita sia come diretta conseguenza del decadimento biologico,
sia come una condizione reattiva, poiché indotta dallambiente
circostante, sia persino auto-imposta come situazione esistenziale
ineludibile. Luomo difatti è un animale culturale,
consapevole di dover morire, per cui, prima di una malattia
vera e propria, la depressione potrebbe essere considerata,
oltre che una delle tante forme di sofferenza psichica per antonomasia,
ovvero di disagio dellanima, una condotta razionale adottata
da chi anticipatamente conosce quale sarà lesito
finale in cui si coglie il senso della vita.
La società, come la religione, fuggono da questo riconoscimento
volgendo il loro sguardo verso illusori ed improbabili altrove.
Il nostro discorso esclude ovviamente le forme endogene, cicliche.
E più pertinente certo alle cosiddette nevrosi
studiate dai seguaci di Freud. La psicoanalisi, del resto, è
nata in un determinato periodo storico ed, indagando i mali
sociali del suo tempo, aveva individuato leziologia delle
nevrosi nel conflitto tra pulsioni inconsce e censure del super-io.
Conflitto tra il desiderio di infrangere la norma e la norma
stessa che lo inibisce, tipico dello spazio espressivo della
società della disciplina, sostenuta dalla
contrapposizione permesso-proibito.
Lordine esterno, la conformità alla legge, induce,
con leventuale infrazione, dei sensi di colpa, cosicché
il nucleo centrale delle forme depressive corrisponde al vissuto
di colpevolezza.
Eppure la saggezza popolare ci ricorda che il cuore non
invecchia mai.
Ebbene, quante esigenze affettive ricevono risposta, una volta
superata una certa età, consentendo quel ricambio emotivo
con il mondo che è poi la prima condizione perché
una qualsiasi esistenza si senta giustificata ?
Lo stesso mantenimento cognitivo è strettamente condizionato
dallaccettazione emotivo-affettiva. (E vale questo per
gli adolescenti che frequentano le scuole; vale ancor più
per gli anziani, il cui potenziale cerebrale si deteriora non
tanto per decadimento biologico, quanto per interruzione dei
flussi affettivi). Lefficienza cognitiva diminuisce quindi
man mano che si vanno estinguendo le risposte emotive.
In appendice, va ricordato come la sofferenza psichica, qualunque
essa sia, alcuni la riconducono ad ununica malattia mentale
che trova espressioni diverse a seconda del terreno biologico,
dellambiente sociale, della storia individuale. Pertanto,
si potrebbe nutrire il sospetto che siano delle motivazioni
affettivo- emotive ad incidere, più di quanto non si
ritenga di primo acchito, sull inizio della fine
e sulla qualità stessa dellinvecchiamento.
Comunque, così come è cambiata la società,
si è pure modificata la vecchiaia. Non possiamo escludere
che la depressione abbia subìto unaltrettanto analoga
psico-pato-metamorfosi.
Le trasformazioni socio- culturali degli ultimi trentanni
circa hanno visto prendere piede la contrapposizione tra possibile
ed impossibile, per cui la misura del rapporto tra individuo
e società non è più contrassegnata dalla
docilità e dallobbedienza disciplinare, ma da iniziativa,
progetto motivazione, risultati, che si è in grado di
ottenere nella massima espressione di sé.
In
uno scenario sociale dove non vè più norma,
né divieto e tutto è consentito, il nucleo depressivo
degenera in un senso di insufficienza per ciò che si
potrebbe fare e non si è in grado di portare a termine
secondo le attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura
il valore di se stesso. Perciò sintomi come la tristezza,
il dolore morale, il senso di colpa hanno lasciato il posto
ad ansia, insonnia, e, soprattutto, inibizione e fatica di essere
se stessi.
Se prima la norma era fondata sullesperienza della colpa
e della disciplina interiore adesso la ritroviamo imperniata
sulla responsabilità individuale, sulla capacità
di iniziativa, di autonomia nelle decisioni e nellazione.
Il valore morale della persona viene ora riposto nella realizzazione.
La depressione si configura non più come perdita della
gioia di vivere, e come sentimento di tristezza, bensì
in una patologia dellazione, in uninibizione con
perdita delliniziativa. La causa di ciò, che prima
era originata dal conflitto, adesso è prodotta dal fallimento
della responsabilità e del mancato sfruttamento di quella
che sarebbe potuta essere una opportunità.
Si fa così riferimento, non tanto a ciò che è
permesso, ma a ciò che è possibile. E la domanda
interiore che ha per predicato un comportamento qualsiasi,
non assume per verbo ho il diritto di
, ma
sono in grado di
compiere una determinata azione.
Dovremmo, in base a quanto esposto, giungere alla necessità
di ridefinire il medesimo concetto di depressione in quanto
patologia dellinsufficienza, perché esprime il
disagio di un individuo che non è sufficientemente se
stesso, mai sufficientemente colmo di identità, attivo
e deciso, poiché troppo titubante.
Una vita vissuta a propria insaputa è priva di senso.
Eppure è questo a succedere in Occidente, dove le categorie
egemoni sono quelle della funzionalità e dellutilità.
Lidea che la nostra cultura si è fatta della vecchiaia
è quella di un tempo inutile. Grazie ai progressi della
medicina ed ai servizi sociali più efficienti sopravvive
una schiera di umanità paradossale,paradossi
viventi, sospesi come sono in una zona crepuscolare, di cui
non si capisce lo scopo, la meta finale.
A che serve allora prodigarsi nellassistere al prolungamento
di questo limbo, di questa agonia psicologica.
La società si dà da fare per ridurre le cause
dellinvecchiamento o per ritardarne, per lo meno, larrivo.
I costi sociali, dalle pensioni allassistenza socio- sanitaria,
sovvertono il ritmo produttivo delle società più
avanzate tecnologicamente, le quali si trovano adesso impreparate
di fronte ad una lotta di classe (ma meglio sarebbe dire di
generazioni) imprevista, differente da qualunque altra sostenuta
in precedenza, come quella perpetrata dalle ideologie forti,
ormai crollate.
Gli anziani sono destinati a sentirsi esclusi in una società
nella quale si è ciò che si fa e se
non fai niente sei una nullità. Li si taglia fuori
quando non possono sperare in una qualsiasi occupazione e la
perdita di identità che ne consegue equivale al totale
disorientamento, alla più profonda disperazione.
Viviamo una fase storica dominata dalle ragioni del mondo economico.
E ragioni contraddittorie sono quelle che vedono, da una parte,
come allanziano si offra una prospettiva di vita sempre
più lunga, mentre, dallaltra, gli si tolga il senso
stesso dellesistenza, poiché per lui non cè
nulla, e nessuno lo vuole. Da qui il senso di impotenza, insufficienza,
inutilità, che prende il posto dei sensi di colpa nel
vissuto depressivo.
Venendo a mancare il concetto di limite, il vissuto soggettivo
è dunque di inadeguatezza e di inibizione. Dalla filosofia
del tutto è possibile scaturisce la concezione
delloppressione sociale quale causa di follia: il pazzo
non è malato, ma diverso e soffre per la mancata accettazione
della sua diversità. Allo scenario sociale dove non cè
più norma,né divieto e tutto è consentito
si affianca il declino dellideologia antipsichiatrica
in cui il malato è oppresso ed il problema della follia
viene spostato sul problema della capacità. Attualmente
la preoccupazione di sbagliare viene sostituita con la preoccupazione
di essere a-normale.
Lumanità è nata con un concetto di gruppo.
Ne è controprova luso del noi, nonché
linsegnamento antropologico e losservazione di Lévi-Strauss
che lespulsione dal gruppo equivale allinesistenza,
alla morte civile, se non a quella vera e propria.
I greci parlavano in termini di polis, e solo col
cristianesimo, e la credenza nellanima, nasce la nozione
di individualità. Per noi occidentali, che concepiamo
la vita come luogo del reperimento del senso, è tragico
confrontarci con letà della tecnica che annulla
ogni visione del mondo.
Ci viene imposto di garantire una prestazione perché
alla tecnica interessa che ci siano degli esecutori efficienti
di azioni già codificate. Non interessano le loro identità
e tanto meno la loro creatività, perché ciò
che conta soprattutto è la sostituibilità degli
operatori.
Quando ci confrontiamo con gli altri non lo facciamo in quanto
noi stessi, ma in quanto svolgiamo una certa funzione e parliamo
con forme linguistiche formalizzate ed ordinate alle prestazioni.
In quanto prestatori di funzioni, non siamo mai realmente chiamati
in causa, non è in gioco la nostra soggettività.
Le nostre identità ne risultano compresse. Prima ancora
di cominciare ad ascoltare sentiamo la necessità di affermarci
come Io. Laltro tende a non esistere, è
solo uno spettatore, ma anche la conferma dellesistenza
nostra.
La relazione che si stabilisce è così asimmetrica.
Siccome nel pubblico siamo funzionali, nel privato lidentità
si esprime in forme parossistiche. Un io sano avrebbe
bisogno della mediazione sociale, delle diluizioni dello scambio
interpersonale, perché lidentità si costruisce
attraverso il riconoscimento esterno. Ma il sociale attuale
ci riconosce soltanto in termini di efficienza, di carriera,
di successo.
Una società narcisistica, qual è la nostra, stimola
comportamenti perversi. Lattuale civilizzazione, con la
sua intensificazione dei ritmi, la crescita della concorrenza,
i metodi di management, fatto apposta per stimolare lindividualismo
e la visibilità, esaspera la parte perversa narcisistica
che tende ad annientare ogni reciprocità e simmetria,
preferendo lapparenza, intollerante verso la debolezza.
Conta mostrarsi, brillare, essere in forma, ai vertici. Quelli
che non ce la fanno, che arrancano di fronte ad un mondo che
imperativamente sostiene che bisogna riuscire in tutto, non
possono che essere depressi.
Volendo estremizzare, potremmo arrivare a scoprire, grazie ai
condizionamenti esterni della società, quale massa abbiamo
generato di psicopatici, narcisisti. Perversi,anaffettivi,
e pertanto immuni dalla depressione, i quali proiettano sullaltro
tutta la sofferenza che non si vuol provare, fanno soffrire
per non soffrire a loro volta, esistono soltanto demolendo laltro,
ed esercitano una sorda violenza (asimmetrica), imponendo la
propria autorità e paralizzando la volontà del
più debole.
Laltro tipo psicologico caratteriale che si va così
delineando, riguarda, dalla parte opposta, nonni e genitori
depressi, vittime delle nuove popolazioni di anaffettivi, con
tutta la complicazione che deriva dal rapporto conflittuale
tra generazioni, e, soprattutto, tenendo conto che i figli costituiscono
pur sempre il prolungamento narcisistico per eccellenza.
Il rimedio, a questo punto, se mette a tacere il sintomo, induce
un superamento, con una risposta alle esigenze efficientistiche
ed afinalistiche. Il rischio che si corre è di impersonalizzazione,
inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita
emozionale, omogeneizzazione delle norme di socializzazione.
La cura dovrebbe invece mirare a rendere capaci di essere se
stessi, di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite esistenziali,
sulla fatica di vivere.
Memore del pensiero di Montagne : A misura che il possesso
della vita è più breve, tanto più profondo
e pieno voglio renderlo, James Hillman dice che il fine
di invecchiare è quello di svelare il nostro carattere,
che ha bisogno di una lunga gestazione per apparire in tutta
la sua peculiarità. Ma questa non sarebbe unidea
del tutto nuova. Socrate stesso, nel dialogo con Cefalo, il
quale descrive la vecchiaia come causa di tutti i mali, ribatte
che, al contrario, la causa non è la vecchiaia, tuttal
più il carattere dellindividuo.
Hillman propone allora di curare non gli individui, ma le idee
malate con cui gli individui visualizzano se stessi e le fasi
della loro vita. Questo però è un lavoro che forse
potrebbe far meglio la filosofia, in quanto correttivo di idee
stantie, divenute egemoni per forza dabitudine, per pratica,
condivisione o semplicemente solo per pigrizia.
Lesigenza di sincerità, la richiesta di risposte
sulle quali poggia la coesione sociale si potrebbe reperire
nelle ragioni di una pietas che sappia distinguere
quanto dellafflizione della vecchiaia venga incrementato
dallidea stessa che ci siamo fatta di essa, una pietas
che riconosca come tante idee convenzionali, tanti luoghi comuni
devono essere cambiati, semplicemente proprio perché
produrre idee è già di per sé,
una sufficiente giustificazione del vivere.
© Giuseppe M. S. Ierace