|
La violenza sulle donne: Aspetti psicologici e dinamiche relazionali
Tratto dal Seminario tenuto nell’Università di Bergamo, Corso di Laurea in Psicologia - Maggio 2006 -
30 gennaio 2007
Prima di entrare nel vivo del seminario, ritengo sia utile spendere qualche parola sull’origine dell’aggressività, un tema che coinvolge da molti anni esperti di diverse discipline e tra questi gli psicologi e gli psicoanalisti.
Fu S. Freud 1 che, nel 1920 con la nuova formulazione dell’apparato psichico (seconda topica), introdusse il concetto di “pulsione di morte” e lo definì come la tendenza di tutti gli esseri viventi a tornare allo stato inorganico. A questa forza, sempre secondo Freud, si oppone la “pulsione di vita”, in quanto tendenza alla riorganizzazione della materia organica.
Il concetto, osteggiato da molti, ma fermamente sostenuto dai kleiniani e, dai micropsicoanalisti, stabilisce che il masochismo è primario ed il sadismo è una sua estroflessione. Nel suo Dizionario di Psicoanalisi e Micropsicoanalisi S. Fanti 2 afferma che l’aggressività è neutra e priva di ogni finalità. Ciò nonostante, essa acquisisce un’identità solo quando si manifesta in maniera percepibile, cioè quando si specifica nei confronti di un oggetto, sia che si tratti della propria stessa persona che di un altro da sé. Inoltre, essa può essere di varia entità in relazione alle componenti costituzionali ed acquisite.
Credo, pertanto, che in tal modo vengano meno le accuse di incompatibilità della seconda teoria delle pulsioni di Freud con la teoria delle relazioni oggettuali e con quella dell’attaccamento di Bowlby .
Con queste premesse mi accingo, quindi, ad illustrare l’argomento del seminario.
Il titolo contiene due termini che meritano una riflessione. Essi sono: psicologico e violenza.
Psicologico: vuol dire che riguarda la psiche o, per usare un termine più appropriato, l’apparato psichico.
L’apparato psichico è costituito da una parte conscia, detta coscienza ed una che sfugge all’attenzione vigile della mente, detta inconscio.
Violenza: “forza impetuosa, incontrollata. Azione volontaria esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà. Dal latino violo, avi, atum, are: usare violenza, violare, oltraggiare, far male, maltrattare”.
Quindi violenza e maltrattamento sono sinonimi.
Quando si parla di violenza sulle donne, si è soliti distinguere tre diversi tipi di violenza:
Violenza psicologica: quell’insieme di insulti, minacce verbali, intimidazioni, denigrazioni, svalutazioni, che il soggetto esprime nei confronti del proprio partner, nell’ambito di una relazione di coppia conflittuale.
Violenza fisica: passaggio all’atto di un impulso aggressivo eterodiretto.
Violenza sessuale: passaggio all’atto di un desiderio sessuale attraverso la costrizione, le minacce i ricatti.
Dal momento che stiamo parlando di persone adulte che subiscono comportamenti coercitivi e/o umilianti da parte di un pari, dobbiamo necessariamente riflettere sugli aspetti soggettivi che riguardano la situazione della donna, nonché sulle dinamiche relazionali con il partner.
Il termine maltrattamento infatti, come abbiamo visto è sinonimo di violenza ed implica che la vittima, oltre ad essere costretta a fare cose contro la propria volontà, si trovi in uno stato di inferiorità da un punto di vista soggettivo o oggettivo.
Maltrattamento: dimostrazione di arroganza, prepotenza e violenza nei confronti di una o più persone soggettivamente od oggettivamente inferiori.
In che senso un soggetto adulto può essere inferiore ad un altro?
Può esserlo fisicamente (più alto, più basso, più forte, più debole), può esserlo intellettivamente (come nel caso dei deficit mentali), oppure può esserlo soggettivamente, se si percepisce come mancante di qualche attributo, prerogativa di altri.
Questo è il caso della maggior parte delle donne che subiscono violenza e maltrattamenti in ambito domestico e che permangono a lungo, talvolta per sempre, in questa situazione.
Fatta eccezione per le differenze oggettive e misurabili con scale di valutazione, l’inferiorità tra adulti corrisponde ad una percezione distorta dell’Io e della propria immagine corporea.
Oltre a ciò possiamo aggiungere che esiste una particolare situazione che rende la donna, ancora ai nostri giorni, più fragile e dipendente dall’uomo: la gravidanza. Del resto, è comprensivo se si pensa che per molte migliaia di anni, nella storia evolutiva della nostra specie, non avere un marito/padre accudente ha rappresentato un reale pericolo di morte per la prole e per la madre impegnata psicobiologicamente nel delicato compito riproduttivo.
Nella casistica femminile si registra frequentemente che i parteners diventano violenti proprio in concomitanza con la prima gravidanza delle mogli. Si potrebbe dire che “approfittano della loro inferiorità”. In realtà la gravidanza delle mogli, in certi uomini, riattiva un’antica frustrazione: un vissuto di rifiuto esclusione e perdita degli oggetti primari infantili.
L’incapacità di spostare l’interesse su altre mete o di sublimarlo in attività sostitutive, determina molte volte gli agiti violenti.
L’acting-out o passaggio all’atto, presuppone che il soggetto non abbia un controllo attivo sulle proprie pulsioni. Un soggetto che utilizza l’altro a fini meramente strumentali, per scaricare una tensione, utilizzando modalità arcaiche di risoluzione dei problemi.
Mi riferisco a quelle stesse modalità utilizzate dal bambino in età pre-verbale, allorquando, in assenza delle capacità di simbolizzazione, consentite in prima istanza dall’uso del linguaggio, agisce un desiderio specifico senza tener conto dell’esistenza dell’altro e dell’ambiente.
Questo passaggio è quello che consente al contempo di uscire da un mondo egosintonico e di entrare in quello della relazione con l’altro.
La capacità di entrare in relazione con l’altro presuppone il riconoscimento e l’accettazione degli interessi personali dell’altra persona. Questa è la vera reciprocità. Per colui che effettua l’acting out, al contrario il partner è privo d’individualità, è un oggetto complementare a se stesso che deve essere posseduto per mantenere l’illusione dell’onnipotenza narcisistica.
Da quanto sopra esposto, emerge che il partner maltrattante e quello maltrattato sono caratterizzati da una complementarietà psichica riassumibile nel binomio sadismo/masochismo. Colui che agisce l’aggressività è portatore di una struttura narcisistica con scarse capacità di sublimazione e spostamento delle pulsioni sessuo/aggressive e quindi con scarse capacità di instaurare relazioni oggettuali. Colui che la subisce è pervaso da un profondo senso di colpa inconscio e da un vissuto di inadeguatezza che lo spinge a collezionare umiliazioni e sofferenze a prezzo di angoscia intollerabile, in un escalation di tensione e violenza che può portare, in casi estremi, anche ad esiti letali.
La violenza ci porta a trattare il concetto di trauma. Dobbiamo distinguere il trauma fisico da quello psichico, anche se in questa sede ci occupiamo prevalentemente di quello psichico. Per quello fisico le donne si devono necessariamente rivolgere alle strutture mediche.
Trauma: proviene dalla parola greca “trauma”, vuol dire ferita e deriva da titrosco = perforare e designa una ferita con lacerazione. In certi contesti esso si riferisce piuttosto alle conseguenze sull’insieme dell’organismo di una lesione risultante da una violenza esterna. La psicoanalisi ha ripreso questo termine trasponendo sul piano psichico i suoi tre significati: quello di shock violento, quello di lacerazione, quello di conseguenze sull’insieme dell’organismo. 3
Il trauma psichico è un evento della vita del soggetto che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto di rispondervi adeguatamente.
Il concetto di trauma, inoltre, rimanda a quello di soggettività, nel senso che per parlare di traumaticità di un evento devono essere verificate alcune condizioni tra cui: l’età, le condizioni psicologiche del soggetto al momento dell’evento, la situazione ambientale con la quale il soggetto interagisce e che può impedire o ostacolare una reazione adeguata e la sua componente costituzionale.
Questi fattori condizionano la risposta di un soggetto all’evento/stimolo
Da un punto di vista economico, il trauma è caratterizzato da un afflusso di eccitazioni che è eccessivo rispetto alla tolleranza del soggetto e alla sua capacità di elaborare psichicamente queste eccitazioni. Si può definire traumatica quell’esperienza che, in breve tempo apporta alla vita psichica un incremento di stimoli talmente forte che la sua liquidazione o elaborazione nel modo usuale non riesce, per cui ne discendono disturbi permanenti nell’economia energetica della psiche. Traumatiche sono anche quelle esperienze alle quali le persone sono fissate (fissazione al trauma, alla fase dello sviluppo in cui è avvenuto l’evento traumatico). L’eccesso di eccitazione può essere in senso piacevole o spiacevole; l’aumento di tensione con la mancata scarica, genera comunque un dispiacere.
Una seduzione sessuale in età precoce, ad esempio, può generare un accumulo di eccitazione (sessuale) che non riesce a trovare una via di scarica. Si crea un ingorgo libidico ed una fissazione all’evento e alla fase dello sviluppo psico-fisico in cui è avvenuto. Esso si ripresenterà nei sogni notturni, nelle fantasie diurne e nel gioco.
Vediamo bene che da un punto di vista psichico il trauma non è un episodio, un evento, il trauma è l’alterazione di uno stato e l’impossibilità di ripristinare l’equilibrio precedente attraverso la scarica dell’eccesso tensionale nei normali circuiti.
Il ripristino dello stato precedente all’alterazione può quindi comportare delle azioni che apparentemente vanno contro l’economia del soggetto, ma possono essere le uniche misure possibili per ripristinare l’omeostasi alterata.
I sintomi talvolta possono essere l’unico strumento possibile per ripristinare un’omeostasi alterata.
Il sintomo, nella funzione di meccanismo difensivo, rappresenta un compromesso tra il soddisfacimento della spinta pulsionale e il bisogno di punizione.
Seguendo questo ragionamento, possiamo azzardare l’ipotesi che, in età adulta, la prolungata permanenza in una relazione violenta sia una manifestazione sintomatica.
In estrema sintesi, ciò che si cela dietro l’evidenza della donna maltrattata da anni e che resta in quella situazione facendo soltanto degli sporadici ed inefficaci tentativi di uscirne, è il seguente:
TRAUMA ORIGINARIO - CONFLITTO TRA DESIDERIO E SENSO DI COLPA - SINTOMO/MALTRATTAMENTO
Da un punto di vista fisico sappiamo che la ferita si sana attraverso la ricostruzione dei tessuti,.
L’essere umano cerca di riparare la ferita psichica, attraverso il tentativo di modificare retroattivamente il corso degli eventi. Si crea quel meccanismo definito:
“Coazione a ripetere: necessità inconscia di rimettersi in una situazione traumatica e dolorosa anche se assurda e umiliante”. 4
La coazione a ripetere situazioni traumatiche senza rendersi conto della propria partecipazione alla ricostruzione della situazione originaria, né la relazione tra la situazione presente e la passata esperienza. Ci si condanna a reiterare lo stesso copione nell’illusione di poter cambiare quella battuta che ci fece soffrire così tanto. Ecco che si tende a rimettersi in situazioni che hanno qualcosa di simile, da un punto di vista rappresentazionale e/o affettivo, con la situazione originaria.
L’altro scopo inconscio di questo meccanismo è quello di passare da una posizione passiva, di chi subisce l’evento, ad una posizione attiva di chi lo comanda.
Purtroppo quel risultato non si ottiene mai e le persone continuano a ripetersi, a fare delle cose contro la propria volontà cosciente, vivendo dei sensi di frustrazione e umiliazione.
E’ chiaro che i traumi possono essere di varia natura e di diversa entità e, a seconda delle variabili sopra esposte, possono provocare risposte di tipo diverso.
Qui, però, si apre un altro capitolo che potrebbe essere l’argomento di un prossimo seminario.
© Bruna Marzi
Note:
1 S. Freud: “Al di là del principio di piacere”Vol. IX B. Boringhieri, Torino 1984.
2 S. Fanti: “Dizionario di Psicoanalisi e di Micropsicoanalisi” Borla, Roma 1984
3 Laplanche Pontalis: “Enciclopedia della psicoanalisi” pag.618, Universale Laterza, Bari 1987.
4 S. Fanti: op. cit. pag. 185.
| |