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TRA SOMA E PSICHE:
la poliedrica problematica dei trapianti d’organo.
11 giugno 2004 Il complesso intervento chirurgico del trapianto d’organo si differenzia da qualunque altro intervento per le profonde implicazioni indotte dall’innesto nel corpo del paziente di una porzione di un’altra persona. Quello che più conta, oltre al vissuto di malattia, è quello che si prova ad avere dentro al proprio corpo un organo da reintegrare nella propria immagine corporea e che possa quindi favorire o meno il rigetto dell’organo trapiantato. Infatti il problema centrale del trapianto, dal punto di vista psicologico è che, come nella malattia, l’interezza e l’unitarietà dell’immagine corporea viene rotta: viene estirpata una cosa che non funziona, ma che è propria, che viene sostituita con una cosa che funziona ma che non è propria. Su questa operazione biologica, che avviene in un tempo relativamente breve, sei o sette ore di sala operatoria, il paziente deve poi fare un complesso lavoro di ricostruzione mentale: cioè una ricomposizione della primaria immagine mentale dell’Io che il trapianto impone” improvvisamente “ per mantenere il senso di identità del soggetto. Il processo di ricostruzione della propria identità, che accompagna il soggetto verso il recupero dell’unitarietà della propria immagine corporea, è lungo e difficoltoso; ma affinché il senso della propria identità si possa ricostituire è necessario che l’individuo compia un lento e complesso lavoro di integrazione psichica o meglio di “accorporazione” dell’organo trapiantato. Perciò, non c’è trapianto, soprattutto se da cadavere, che non sollevi nel ricevente vicende e percorsi psicologici ed emotivi e mentre alcuni pazienti sanno trovare una via di integrazione del nuovo organo altri non vi riescono quasi mai del tutto. Condizioni indispensabili affinché questo processo di assimilazione possa avvenire è che il paziente abbia elaborato e superato il lutto per il proprio organo perduto e che non provi sensi di colpa nei confronti del donatore. Infatti accade spesso che i soggetti non riescano ad assimilare l’organo nella propria identità psicosomatica e continuino a sentirlo come qualcosa di estraneo, protesico, posticcio fino ad arrivare a sentirlo oggettivamente persecutore; in quest’ultimo caso, l’organo trapiantato può determinare una certa confusione nella immagine corporea del ricevente e per questo può essere vissuto con modalità arcaiche e fantastiche: o come oggetto ostile, distruttivo e persecutore o come oggetto investito di forza e vitalità in grado di suscitare sentimenti di rinascita. Da ciò si deduce che l’organo trapiantato, oltre a non essere mai biologicamente inerte non lo è nemmeno psicologicamente, perché comporta sempre un problema di rapporto psicologico tra il paziente e l’organo e attraverso esso, il donatore. Alcuni Autori, infatti arrivano ad ipotizzare che la mancata risoluzione di tale rapporto potrebbe determinare il rigetto biologico dell’organo, cioè che i fattori psicologici possano condizionare l’intensità delle reazioni di rigetto e addirittura indurne l’insorgenza. Attraverso il rigetto il paziente manifesterebbe la difficoltà ad integrare psicologicamente l’organo trapiantato. Il rigetto psicologico è, come abbiamo detto, possibile se il soggetto non sente il nuovo organo come una parte di se stesso. Infatti secondo Chiesa 1, la possibilità di integrare l’organo donato nella propria immagine corporea passa attraverso la progressiva maturazione dei processi difensivi, cioè l’abbandono da parte dei pazienti di meccanismi arcaici, come il diniego, e l’utilizzo da parte del paziente delle capacità dell’Io di funzionare secondo i processi secondari di obiettività e neutralizzazione. Solo così il trapianto, da un punto di vista cognitivo-affettivo, può realizzarsi, mediante una lenta metabolizzazione, a partire dallo stadio iniziale, in cui l’organo è avvertito come “corpo estraneo”, oggetto ambivalente “buono da incorporare” e al tempo stesso “investito di diffidenza” per il suo essere intrusivo, attraverso la fase di incorporazione parziale e giungendo quindi a quella di incorporazione completa, quando il nuovo organo è divenuto parte integrante del funzionamento fisiologico e quindi della immagine corporea; quindi il nuovo organo entra a far parte integrante del senso del Sé 2. In realtà, altri Autori fanno una ulteriore distinzione tra incorporazione e introiezione. Infatti nel caso dei trapianti d’organo non si ha solo l’incorporazione di un organo, cioè il passaggio dall’esterno all’interno di qualcosa e quindi solamente il superamento del limite somatico, ma si ha anche un processo più complesso, l’introiezione, che comprende sia il versante somatico che quello psichico e che permette perciò l’integrazione psichica dell’organo e quindi la ristrutturazione del Sé. Significativa è la distinzione che L. Sarno 3 stabilisce tra incorporazione e introiezione. Egli sostiene che l’incorporazione venga messa in atto quando l’elaborazione del lutto non è possibile a causa della relazione ambivalente e narcisistica del soggetto con l’oggetto perduto e comporta la negazione della perdita di tale oggetto, così che l’oggetto continua a vivere dentro il Sé, grazie al fatto che viene inghiottito in modo fantasmatico; perciò, l’incorporazione non prevede il doloroso lavoro di rimodellamento del Sé di fronte alla perdita. L’introiezione, invece, permetterebbe, essendo un meccanismo più maturo, una adeguata elaborazione del lutto e quindi il rimodellamento del Sé di fronte alla perdita dell’oggetto. Ma affinchè un individuo possa far uso dell’introiezione è fondamentale che abbia acquisito la capacità di tollerare la frustrazione. Se manca questa capacità il vuoto tra il Sé e l’oggetto non può essere tollerato per cui l’individuo ricorre all’incorporazione. Altri autori, come Crombez e Lefebvre 4, sostengono che, per spiegare il processo di integrazione dell’organo donato nell’immagine corporea del ricevente, non sia corretto parlare di introiezione o incorporazione, ma sia più esatto introdurre un’altra funzione mentale: l’accorporazione. L’incorporazione esprimerebbe infatti il passaggio dall’esterno all’interno attraverso gli orifizi corporei, mentre l’introiezione costituirebbe una modalità di interiorizzazione vissuta essenzialmente sul piano mentale: l’accorporazione comprenderebbe entrambi i versanti dell’esperienza, somatico e mentale. Alcune caratteristiche di questa funzione mentale la rendono simile all’incorporazione orale primitiva, e permetterebbero quindi, secondo gli Autori, di spiegare i timori che spesso emergono nei riceventi, legati alla fantasia di poter acquisire con il “nuovo” organo anche le caratteristiche fisiche e psicologiche del donatore. Un esempio 5 a questo proposito è dato dal caso, negli Stati Uniti, di un rappresentante del Ku Klux Klan che si iscrisse ad un’associazione per l’affermazione dei diritti della gente di colore dopo aver saputo che il rene che aveva ricevuto proveniva dal cadavere di una persona nera. Un’esperienza così totalizzante può anche animarsi di vissuti persecutori, fino a strutturarsi in un vero delirio. Solo in un secondo tempo la possibilità di separare la figura del donatore dall’organo ricevuto favorirebbe una progressiva accorporazione con possibilità di integrazione nella propria immagine corporea e investimento libidico narcisistico. Anche Muslin 6 ritiene che il processo di assimilazione di questa “nuova parte” implichi i meccanismi di incorporazione, introiezione ed identificazione. Egli ritiene che esistano tre fasi di internalizzazione: lo stadio iniziale è quello del “corpo estraneo” anche se può suscitare sentimenti protettivi (cioè viene sentito come l’organo che consente la vita); lo stadio seguente è quello dell’incorporazione parziale, in cui il paziente manifesta una minore tendenza a considerare l’organo come estraneo, mentre lo stadio finale, o dell’incorporazione completa, è caratterizzato dall’accettazione del nuovo organo al punto che non c’è più coscienza spontanea di esso.
Secondo Castelnuovo-Tedesco 7, il maggiore studioso in questo campo, il trapianto comporta sempre almeno una parziale identificazione da parte del ricevente con il donatore e la mancata identificazione con il donatore può determinare il rigetto biologico dell’organo. E’ evidente che l’identificazione di cui parla quest’Autore è altra cosa rispetto alla nozione di essa comune in ambito psicoanalitico: qui, infatti, non si tratta dell’assunzione di tratti della personalità del donatore che contribuiscano a modellare ed a ristrutturare quella del paziente, bensì di una vera e propria integrazione dell’organo trapiantato nella sua identità psicosomatica, quello che, in qualche modo, potrebbe dirsi una sorta di “identificazione passiva”: non il paziente che si fa in qualche modo simile al donatore, ma un organo di questo che viene sentito dal paziente come una parte di se stesso. Il Castelnuovo-Tedesco sostiene, infatti, che l’organo trapiantato ottiene immediatamente un proprio spazio all’interno del mondo rappresentativo di colui che lo riceve: si rapporta sin da subito con gli altri oggetti interiorizzati, che vengono a loro volta modificati da questa nuova presenza. L’organo trapiantato non si configura, perciò come semplice “ pezzo di ricambio” , ma rappresenta simbolicamente un altro essere umano interiorizzato.
Un tentativo di approfondire ulteriormente tale ipotesi è compendiato negli studi micropsicoanalitici di Nicola Peluffo 8. Secondo l’Autore la malattia può prendere totalmente o parzialmente il posto del persecutore. Si può affermare che “la malattia vincola il conflitto e canalizza l’aggressività, per cui quando la malattia è ben localizzata ed eliminabile, per esempio con un intervento chirurgico, l’angoscia non più vincolata, può almeno temporaneamente riversarsi sul canale psichico. Quindi spesso succede che, dopo un’iniziale euforia per la salute riacquistata, il paziente, che ha subito il trapianto, si venga nuovamente a trovare alle prese con i problemi conflittuali che aveva vincolato nella sindrome organica. Quando l’organo malato viene asportato e ne viene trapiantato uno nuovo, tutta l’elaborazione antecedente è turbata e sono necessari nuovi tentativi per ristabilire l’omeostasi e quindi per trattenere un organo trapiantato (favorire perciò una reazione di facilitazione) è necessario effettuare su di esso un investimento narcisistico. Cioè, per identificazione, far entrare la nuova parte nella vecchia struttura immaginaria dell’Io che necessariamente si modificherà” 9 . Un’idea che appare in modo costante 10 in chi ha ricevuto il trapianto è quella di aver derubato il donatore di una parte vitale e che, in conseguenza di ciò, il donatore stesso è stato ferito o ucciso. Questi pensieri sono basati su sensi di colpa inconsci, insieme alla paura di essere puniti. “Il “prendere” una parte di un altro, materializza le fantasie primarie di castrazione e si costituisce una situazione inconscia simile a quella osservabile nell’analisi di soggetti in cui è molto intenso il vissuto feticistico, sostenuto dalla fantasia inconscia, di aver derubato la madre del pene” 11 . Un caso significativo di cui parla Castelnuovo-Tedesco in Organ Transplant, Immagine corporea, Psychosis (1973) è quello di un paziente che ebbe una reazione psicotica al trapianto cardiaco. Iniziò a lamentarsi che non solo il suo cuore era stato prelevato ad un’altra persona, ma che questa persona era una donna. Nei momenti di regressione più profonda delirava dicendo che aveva rubato il cuore ad una donna e che questa donna era sua madre. Questo soggetto ebbe nel momento culminante del suo delirio delle allucinazioni uditive durante le quali si sentiva chiamare da una voce di donna. Era la donatrice-madre che ritornava per reclamare ciò che le apparteneva e, sosteneva il paziente, quando gli avesse ripreso il suo cuore lo avrebbe assorbito ed incorporato tutto intero, come egli aveva fatto con il cuore della donna stessa. Questo caso si può spiegare facendo ancora riferimento alla teoria micropsicoanalitica di N. Peluffo 12, il caposcuola italiano della micropsicoanalisi, che sostiene che così come la gravidanza è condizionata dall’interazione dei fantasmi (fantasie) stimolo-risposta intercorrenti tra la madre e il feto, in modo parallelo l’innesto di un organo sarebbe una sorta di gravidanza: l’organo non self (come del resto il feto) sarebbe integrato meglio se si stabilisce un processo di identificazione profondo tra l’ospite e il donatore. Nel caso specifico, “la nuova parte (il cuore) che sostituiva la vecchia, la cui malattia vincolava somaticamente il conflitto, l’angoscia e l’aggressività, ridiventava il luogo del conflitto che riprendeva il suo aspetto psichico e veniva riversato nell’immaginario ed espresso nel delirio di persecuzione reciproca tra lui e la donna-madre” 13. Si verificherebbe una riattivazione di quello che N. Peluffo definisce il conflitto di base, cioè quello tra soma e psiche, il cui inizio a livello somatico si delinea quando la reazione difensiva di rigetto dell’organismo materno viene contrastata dall’investimento narcisistico che la madre fa sul figlio che porta in grembo in quanto completamento della sua unità somatopsichica e riparazione dei suoi vissuti di distacco, perdita. Dato che la micropsicoanalisi 14 ammette che un processo patologico somatico abbia una sua manifestazione inconscia che viene elaborata nell’immaginario ed è riconoscibile attraverso il sogno, e che durante la gravidanza l’organismo estraneo (il figlio) dà pure atto, nella madre, a manifestazioni oniriche specifiche, anche la presenza di un gruppo di cellule estranee, con un loro patrimonio genetico diverso, darebbe origine ad un fenomeno simile.
Un dato emerge da tutto questo lavoro, ovvio ma non per questo meno importante: un trapianto è un evento assolutamente particolare perché esso solo, tra tutte le esperienze terapeutiche che un paziente può affrontare, nell’immenso campo della medicina, coinvolge e mette a contatto fino al limite estremo della integrazione fisica, due persone, una delle quali, il ricevente, con tutto il suo vissuto, che nell’esperienza della grave infermità, è stata segnata dal dolore, dal senso di impotenza, dalla paura della morte. C’è poi il donatore, vivente o morto, “l’Altro”, portatore anch’esso del suo vissuto, spesso sconosciuto e, per ciò stesso, ancora più inquietante. Due esistenze si incontrano drammaticamente e proprio nel momento della più grande vulnerabilità fisica e psicologica del ricevente, combattuto tra la consapevolezza che all’Altro deve le sue incerte speranze di sopravvivenza e la paura, più o meno inconsapevole, di quella estrema intimità per cui un Altro diventa parte di se stesso. Il donatore vivente è protagonista di un atto generoso, ma che può essergli di nocumento sul piano fisico e che può coinvolgerlo emotivamente in varia misura e con molte conseguenze. Ci sono poi i familiari, coinvolti a vario titolo in un’esperienza che di solito stravolge situazioni, rapporti e prospettive di tutta la famiglia, ma che nel contempo devono svolgere un ruolo insostituibile di collaborazione con i sanitari e di sostegno ed assistenza del paziente. Ed infine i sanitari, che da un lato, ciascuno con le proprie competenze professionali, devono gestire le molte, complesse fasi del trapianto ed operare scelte spesso difficili e di grave responsabilità, dall’altro sono gli interlocutori del paziente e dei familiari ed ai quali si chiede in continuazione di essere rassicurati ed ai quali, in definitiva, si attribuisce la responsabilità dell’esito del trapianto.
Tra tutte queste persone si generano relazioni complesse, difficili, spesso conflittuali ed è perciò evidente l’importanza che in tale contesto assume l’assistenza psicologica con il compito di osservare, individuare i problemi, indicare i comportamenti più adeguati, sostenere tutti i protagonisti, facilitarne le relazioni, favorire il reinserimento del trapiantato in una normalità che, in ogni caso, non sarà più quella di prima. © Elena Consoli
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Note: 1 Chiesa S. – Il trapianto d’organo: crisi e adattamento psicologico – Psichiatria e Medicina, 10, 15, 1989.
2 House R. M. e coll. – Psychiatric consultation to organ transplant services – Reviews of Psychiatry, 1990, 9, 515-536.
3 Sarno L. – La scorza ed il nocciolo (N. Abraham e M. Torok). Una nota su introiezione ed incorporazione: radici e natura della cripta – Riv. di Psicanalisi, anno XLI, 1995, n. 2, pp. 294-302.
4 Lastrico A., Politi P.L., Barale F. - Sul vissuto del trapianto cardiaco-– Minerva Psichiatrica, 1994, 35, 3, 139-145.
5 House R. M. e coll. – Op. cit.
6 Muslin H.L. - On acquiring a kidney - Am. J. Psychiatry, 1971, 127, 1185-1188.
7 Castelnuovo-Tedesco P. - Organ transplant, body image, psychosis - The Psychoanalytic Quarterly, 1973, 42, 3, 349-363.
8 Peluffo N. (1983) - Immagine e fotografia - Borla, 1999.
9 Peluffo N. – Op. cit., pag.141.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Ibidem, pag. 124.
14 Ibidem. |
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