Tossicodipendenza e sofferenza
familiare
1 novembre 2000
Lo psicoanalista, in
ragione del suo lavoro, è in contatto continuo con la
sofferenza umana e losservatorio privilegiato costituito
dalle sedute individuali (tanto più profondo quanto più
protratto è il tempo di seduta) gli consente di raccogliere
ciò che di più intimo e vero alberga nellanimo
umano. Nel corso di una interazione così profonda progressivamente
le bugie, le manipolazioni, i camuffamenti, le razionalizzazioni
cedono il passo ad associazioni mentali via via più sincere
e vicine al dato realmente presente nella parte più ricca,
energeticamente potente della nostra personalità: linconscio.
Se si potesse misurare la distanza tra ciò che effettivamente
lessere umano vive da un punto di vista psichico ed emozionale
e ciò che racconta o crede di vivere, saremmo senzaltro
costretti a ricorrere agli anni-luce. Uno dei problemi sociali
che maggiormente è soggetto a fenomeni di massa di diniego,
rimozione o deformazione è senzaltro quello della
tossicodipendenza. Ed al contempo questa drammatica realtà
trascina con sè un grande bagaglio di sofferenza per
il tossicodipendente e per la sua famiglia.
In un articolo dedicato alla divulgazione non ci si può
esimere da approssimazioni e da cesure espositive.
Innanzitutto vorrei ricordare una cosa elementare: al di là
di una piccola percentuale di casi in cui nella condotta tossicomaniaca
si reperisca lassenza di una conflittualità psichica
rilevante, il tossicodipendente è un malato come un altro:
dovremmo dunque sforzarci di associarlo mentalmente a qualsiasi
altro malato portatore di una affezione somatica grave potenzialmente
mortale (il cardiopatico grave, il malato neoplastico, per esempio,
verso i quali non proviamo difficoltà alcuna a nutrire
spontanei ed intensi sentimenti di pietas). Questa affermazione
che potrebbe essere ritenuta addirittura pleonastica tanto appare
ovvia, in genere suscita vibranti dissensi proprio da parte
dei tossicodipendenti, i quali, in ragione dello smisurato senso
di onnipotenza che caratterizza la loro struttura di personalità
ed impedisce di percepire il reale pericolo connesso con luso
del farmaco, tendono ad ammantare, per razionalizzazione difensiva,
l'intenso e coatto bisogno inconscio, con la rivendicazione
di una vita diversa, eroica, protesa verso linfinito,
staccata con disprezzo dalle bassezze della quotidianità
borghese. Ho ormai preso labitudine automatica di tirare
un sospiro di sollievo quando ascolto un sincero Dottore,
mi aiuti da parte del tossicodipendente. Il malato che
richiede aiuto si situa già nella dimensione avanzata
di colui che sta già tentando dentro di sé di
arginare il male, ne percepisce la pericolosità, ed ha
maturato quellovvia considerazione, innata nei soggetti
immuni dallappetenza alle droghe, che non vi può
essere libertà alcuna in presenza del bisogno coatto.
I secondi a dolersi di tale ovvia considerazione sono le persone
costrette dalla propria paura ed aggressività inconscia
ad eliminare totalmente qualsiasi pur lontana possibilità
di comunanza tra sé e lAltro, il Delinquente, il
Deviante, un po come qualche decennio fa si faceva comunemente
con i malati di mente.
Ma il tossicodipendente è un malato particolare: uno
dei segni caratteristici della sua malattia si fonda
sullintensa appetenza psichica alla droga; è infatti
ormai fuor di dubbio, per chi abbia una pur minima esperienza
clinica, che la cosiddetta sindrome da astinenza,
tanto drammatizzata in passato, dal punto di vista dei disturbi
strettamente somatici non ha nulla di particolarmente imponente
e preoccupante, è di pronta risoluzione, con presidi
farmacologici addirittura banali. Il problema centrale è
che nessuno finora è stato disposto a formulare lovvia
domanda: Perché esiste questa appetenza psichica?.
La risposta, anche se può apparire sconcertante, è
che questi soggetti hanno un reale bisogno di quella sostanza
farmacologica socialmente denominata droga. Ne hanno
bisogno perché placa transitoriamente lintensa
angoscia e lintollerabile conflittualità interna
che li agita. Se leroina non avesse presentato gli spiacevoli
effetti collaterali che ben conosciamo ed il fenomeno della
tachifilassi, cioè la necessità di aumentare progressivamente
le dosi dovuta al rapido processo di intervenuta tolleranza,
per sortire lo stesso effetto farmacologico, la sua diffusione
sarebbe enorme e sarebbe considerata uno psicofarmaco come un
altro. Perché non si considera mai che leroina,
derivato semisintetico della morfina, è in fondo un potentissimo
tranquillante sia per via della sua azione diretta (raramente,
come daltra parte tutti i tranquillanti, provoca disforia),
che per il noto effetto flash di deconnessione con il proprio
io che il tossicodipendente ricerca? Il tossicodipendente ricerca
leroina come un malato terminale oncologico ricercherebbe
qualsiasi presidio terapeutico possa calmare il suo dolore.
E poco importa se la sofferenza è percepita a livello
del soma o a livello psichico: sempre di sofferenza si tratta.
Ma la tossicodipendenza da oppiacei non può essere ritenuta
una sindrome a sé stante: essa è un sintomo di
una situazione di alta conflittualità psicobiologica.
E non può esservi risoluzione alcuna senza un processo
di presa di coscienza dei conflitti profondi che nutrono lappetenza.
In fondo il tossicodipendente, assumendo leroina non fa
che operare un inconscio (e disastroso) tentativo di autoterapia
che se da una parte gli consente comunque di vivere, dallaltra
gli permette di mantenere inalterato il suo stato patologico
di onnipotenza: Io non sono un malato di mente. Sono semplicemente
diverso!.
Lessere umano che per le caratteristiche del suo terreno
psicobiologico finisce per sviluppare una tossicodipendenza,
con lalta pulsionalità di morte che lo contraddistingue
(in termini usuali, la sua auto ed etero distruttività)
è sempre esistito: nelle generazioni lontane partiva
in guerra come volontario nei reparti dassalto, negli
anni cinquanta attaccava la sua vita alla ruota del caso nel
corso di folli e spesso mortali raids in automobile o in motocicletta.
Oppure, nella generazione che ci ha preceduto, sviluppava una
sindrome alcolomaniaca. Il tossicodipendente attuale è
particolarmente sfortunato: in primo luogo ha incontrato sul
suo cammino delle molecole diaboliche, molto più aggressive
e mortifere delle precedenti, in secondo luogo non può
facilmente mascherare in modo socialmente accettabile il suo
problema; infine lillegalità del mercato lo rendono
automaticamente un delinquente.
Uno dei discorsi francamente disarmante che spesso viene fatto,
purtroppo anche da alcuni operatori, è quello delle responsabilità,
un discorso che spesso alimenta allinterno delle famiglie
uno stato di penosa conflittualità e nutre profondi e
dolorosi sensi di colpa specialmente nei genitori. E questo
un discorso che, con lapprofondita osservazione della
situazione, alla lente dingrandimento costituita dallindagine
psicoanalitica, perde molta parte della sua fondatezza e acquisisce
una certa relatività. Perchè, la storia conflittuale
che alimenta la situazione di tossicodipendenza nel singolo
membro della famiglia è spesso iniziata generazioni addietro,
ha trovato in altri membri della famiglia altre modalità
di rappresentazione (malattie somatiche gravi, fallimenti sentimentali
o lavorativi, condotte sociali pericolose o devianti, ecc.)
e solo nel momento attuale, lo stesso trauma transgenerazionale
acquisisce le stigmate della tossicodipendenza. Spesso, servendosi
di quella preziosa metodica utilizzata dalla scuola micropsicoanalitica
che è lo studio genealogico, e che consiste in una meticolosa
ricerca che si serve di fonti documentarie diverse, quali lettere,
fotografie, archivi familiari, mappe delle case, ecc., il giovane
tossicodipendente ha la possibilità di riconoscere, in
tentativi che hanno interessato le generazioni che lo hanno
preceduto, lo stesso terreno gravido di pulsione di morte che
lo contraddistingue. Questa verifica di realtà, se viene
condivisa dal gruppo familiare attuale, sarà fonte di
grande sollievo, in primo luogo perché avere la percezione
che si tratta di fatti traumatici che si ripetono in forme diverse,
disinnesca la drammaticità artificiosa della penosa sensazione
di estraneità ed incomprensibilità di ciò
che sta accadendo e costituisce un primo riscontro di familiarità
tra il giovane e la sua famiglia. La chiara percezione di avvenimenti
traumatici che si succedono nel corso delle generazioni priva
la tossicodipendenza di quel bruciante senso di irreparabilità,
di spaventosa estraneità, di diabolicità che una
volta, quando ero bambino, ammantava la rappresentazione popolare
dei tumori maligni, una cosa che nemmeno si osava nominare.
Questo costituisce il primo importante passo: avere la consapevolezza
che il caso di tossicodipendenza non è il primo avvenimento
che, venendo a scuotere quella retroattiva idealizzazione di
ogni Storia Familiare, giunge a tormentare la famiglia. Il giovane
ha così modo di liberare le sue spalle dal grave fardello
dellalienità che lo fa sentire un mostro senza
radici.
Se inizierà e porterà a termine una ricerca psicoanalitica,
pian piano, insieme alla progressiva neutralizzazione della
conflittualità inconscia che nutre lappetenza per
la droga, avrà modo di scoprire che la tormentosa ambivalenza
che lo spinge a combattere contro i suoi genitori ed il mondo
intero, è solo lennesima replica, che scrittura
attori inconsapevoli, di un copione di rappresentazioni ed affetti
che ha unorigine lontana e di cui, spesso, si sono persi
i codici di espressione. Dare una voce a questo lontano, traumatico
passato, è lunico modo che abbiamo per renderlo
energeticamente inerte. E in modo definitivo.
© Quirino Zangrilli
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