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a cura di Bruna Marzi  
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La paura del lupo

28 febbraio 2008

lupoStavo scrivendo le prime righe di questo articolo, quando mio figlio di dieci anni, incuriosito dagli appunti sparsi sulla scrivania, da alcuni disegni e foto di lupi, ha esclamato: “Ma chi può avere paura del lupo”? Dopo un primo momento di perplessità, mi sono detta: “ sarebbe impensabile ammettere di avere paura del lupo per un giovane guerriero che tramite i suoi eroi preferiti Harry Potter, Hermione e Ron, combatte contro la magia oscura di Lord Woldemord.” Ciò nonostante, quelle immagini dovevano aver avuto un certo impatto emotivo su di lui, così che continuando la conversazione, mi ha confidato che aspetto avesse la sua paura degli animali feroci: “beh, io non ho paura di morire, ma se il lupo mi mordesse soffrirei”. Avevo trovato conferma, nelle parole di mio figlio, dell’esistenza di questa immagine universale già tante volte riscontrata nel materiale clinico dei miei pazienti ed ampiamente documentata negli scritti psicoanalitici a partire da S. Freud del quale ricordiamo, primo fra tutti, il caso clinico “L’uomo dei lupi”. 1
Come tutte le zoofobie, anche quella del lupo implica la paura di essere mangiati, divorati; si tratta della proiezione su un oggetto esterno (l’animale) del desiderio di aggredire, divorare, incorporare, che trova fondamento nella vita pulsionale del bambino alle prese con i desideri edipici di possesso/distruzione nei confronti dei genitori e loro sostituti e nella paura delle possibili ritorsioni (castrazione). In termini kleiniani si parla di identificazione proiettiva: il bambino attribuisce al lupo i propri desideri che vive narcisisticamente come rivolti contro se stesso.
Sorge, però, spontaneo chiedersi, come mai sia proprio il lupo l’animale tra i più “gettonati” per questo spostamento e non solo nella cultura occidentale. L’immortalità delle fiabe di Esopo e dei fratelli Grimm: “Cappuccetto Rosso”, “Il lupo e i sette capretti” " I tre porcellini”, ecc. ne sono una testimonianza.
Ci sono poi i detti popolari che fanno parte del linguaggio pressoché quotidiano: “Il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, “In bocca al lupo – crepi il lupo”, “Ho una fame da lupi”, “Un tempo da lupi”; modi di dire con funzione scaramantica che indicano la necessità di superare una prova difficile e che genera paura, oppure la voracità, o situazioni atmosferiche buie che incutono un certo timore perché richiamano l’oscurità del bosco.
D’altro canto, che il lupo abbia da sempre costituito una minaccia per i cacciatori, i pastori e le greggi, nonché per altri animali, è un dato di fatto. Basti dire che ancora ai nostri giorni e, per l’esattezza una decina di anni fa, nel Parco Nazionale di Yellowstone, il reinserimento del lupo nella fauna locale, in un anno ha dimezzato la presenza degli alci con la conseguente ricrescita della vegetazione del parco di cui gli alci si nutrivano.
Il rapporto ambivalente tra l’uomo ed il lupo ha radici antiche; accanto all’odio e la paura del lupo, convive l’invidia di certe sue caratteristiche. L’uomo ad esempio, ha sempre invidiato al lupo le prerogative che lo rendevano un cacciatore imbattibile: le zanne, gli artigli, la vista. Per questo motivo il lupo è stato l’animale totemico dei popoli cacciatori dell’Asia centrale. Gli sciamani usavano eseguire riti propiziatori della caccia mascherandosi da lupi; l’intento era quello di trasferire ai cacciatori le qualità del lupo. Ciò equivale a dire che per essere un buon cacciatore bisogna essere come il lupo, possedere i suoi attributi.
Alla fine di una seduta lunga di micropsicoanalisi in cui un analizzato aveva parlato della favola di Cappuccetto Rosso, della paura che il lupo entrasse di notte nella sua stanza e lo mangiasse, congedandosi disse: “Ora vado a farmi una bella mangiata di costolette d’agnello”. Si trattava di una buona elaborazione del materiale edipico riattivato: il giovane passava dall’identificazione al ruolo passivo dei personaggi femminili della favola (Cappuccetto Rosso e la nonna) che vengono mangiati, a quello attivo del lupo o del cacciatore che va in cerca della preda.
Il desiderio di identificarsi al lupo e di assumerne le qualità è testimoniata anche dalla credenza nell’esistenza del “lupo mannaro” o licantropo, un particolare stato mentale in cui nelle notti di luna piena, l’uomo si trasformerebbe in vampiro per nutrirsi della carne e del sangue delle sue vittime.
N. Peluffo ha scritto un bellissimo articolo (Il Persecutore), pubblicato in questa Rivista, dal quale prende spunto il mio contributo. Stimolato dalla visione di un documentario televisivo in cui una mandria di bisonti veniva inseguita dai lupi, l’autore descrive come si formano e mantengono i vissuti persecutori negli esseri umani. Egli richiama il concetto freudiano di traccia mnestica e/o fantiano di Immagine in quanto “contenitori” delle esperienze pulsionali filogenetiche ed onogenetiche, che possono essere riattivate in qualsiasi momento, sia da eventi esogeni qualitativamente simili alle esperienze archiviate, sia dal sogno. Egli scrive: “L’essere umano, i cui nuclei narcisistici si costituiscano a sistema, e perseguitino l’Io, è costretto a difendersi con un’attività sistematica di proiezione che gli permette di non fuggire a vuoto e di alleviare la tensione. Il fatto è che gli oggetti delle proiezioni sono sostituti dei nuclei narcisistici e quindi, anche se esterni perseguitano il soggetto dall’interno.” 2
Un’analizzato esprimeva lo stesso concetto, citando il XII Canto della Gerusalemme Liberata: Tancredi, disperato per l’involontario omicidio dell’amata Clorinda, pronuncia le seguenti parole: “Temerò me medesmo e da me stesso sempre fuggendo avrò me sempre appresso”. 3
Ed aggiungeva: “...è dai fantasmi che sto fuggendo, quelli che ho creato io stesso…. non puoi scappare da te stesso, lo hai sempre con te”.
Metaforicamente parlando, quindi, possiamo dire che il lupo è dentro di noi e la possibilità di proiettarlo all’esterno è un’operazione difensiva che talvolta può salvaguardare l’integrità psicobiologica da pericolose spinte autodistruttive. Si pensi, ad esempio, alle patologie autoimmuni in cui gli anticorpi, invece di essere diretti contro le sostanze estranee, sono rivolti contro costituenti del proprio stesso organismo. Si verifica un mancato riconoscimento del sé, catalogato come estraneo e pericoloso, con la conseguente attivazione di meccanismi immunitari simili a quelli dei trapianti eterologhi. Si ha cioè il rigetto, in altre parole l’ allontanamento/fuga da un oggetto considerato pericoloso o l’aggressione ed eliminazione dello stesso.
Non c’è quindi da stupirsi se persino in medicina si è fatto ricorso proprio al lupo per designare l’immagine dell’aggressore. Nel XX Secolo i medici chiamarono Lupus eritematoso sistemico quella malattia autoimmune caratterizzata da un’eruzione cutanea a forma di farfalla, riscontrabile sul viso dei pazienti che ricordava i contrassegni bianchi presenti sul muso del lupo.

© Bruna Marzi

Note:

1 S. Freud: Dalla Storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell’uomo dei lupi), in Opere Vol VII B. Boringhieri, Torino 1975.
2 N. Peluffo: Il Persecutore, Editoriale di Scienza e Psicoanalisi, 8 settembre 2003
3 Tasso: La Gerusalemme Liberata, Canto XII.

   
 
   
 
 

 
     
 

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