Come inizia...
Avevamo
da poco terminato una seduta di supervisione nel corso della quale il mio didatta
aveva fatto alcune osservazioni sulle determinanti filogenetiche del disturbo
psichico. Mi aveva invitato a porre attenzione ai particolari della storia del
mio paziente che si ripetevano di generazione in generazione, a costituire come
uno spartito ingiallito dal tempo, suonato da orchestre diverse e in tempi diversi,
che acquisisce quella minima svisata che gli conferisce il dono dell'originalità,
ma la cui essenziale struttura rimane inalterata. Passeggiavamo lentamente lungo
il piccolo viale che lambiva la villetta del Professore. D'un tratto, rimanemmo
entrambi catturati dalla visione di un vecchio uomo, che sedeva sulla soglia di
un massiccio portone, con il viso dolcemente rischiarato dalla luce arancio del
tramonto.
Non riuscivo a capire razionalmente cosa c'era che mi incuriosisse
di quell'uomo. L'unica cosa che riuscii a notare fu la sua presenza totalmente
inespressiva, ma non inquietante; oggi direi neutra. Il Professore, tirando con
avidità una boccata delle sue sigarette fatte a mano con l'ormai introvabile
"trinciato forte", lo guardò con discrezione, quindi rivolse il suo sguardo
fermo dritto nei miei occhi e si limitò a dirmi: "Vede ? Siamo soltanto
degli involucri".
L'osservazione bastò a dare una risposta al lavorio
mentale che l'incontro aveva suscitato in me. Non avevo compreso, a livello logico,
quello che il mio maestro aveva voluto dirmi, ma quella definizione si attagliava
perfettamente a ciò che avevo sentito; d'altra parte non c'era dubbio alcuno
che quella "cosa" che avevamo visto fosse nient'altro che un involucro.
Sarebbero
dovuti passare anni di lavoro, ore ed ore ad ascoltare esistenze di molte persone
prima che potessi elaborare compiutamente l'impatto affettivo che quella visione
aveva determinato. Tornai a pensarci, diversi anni dopo, nell'atmosfera di indescrivibile
vicinanza al vero, di una seduta lunga di quattro ore, mentre ascoltavo le associazioni
di un analizzato. Questi era giunto in analisi avendo una percezione di se stesso
e degli esseri umani come di meccanismi senza sentimenti: "C'è stato un
periodo in cui pensavo alle persone come a macchine perfette, che possono intuire
immediatamente tutto degli altri"; ora, ormai alla fine del lavoro micropsicoanalitico,
così si esprimeva osservando una fotografia del padre: "L'altro giorno,
studiando quella suonata, mi sono accorto che ero costretto a fare una cesura:
evidentemente le frasi respirano da sé. E' qualcosa che non si può
insegnare, sono come respiri; ho notato che a momenti faccio dei sospiri quando
suono. Conoscevo una persona che parlava in modo piatto (l'analizzato aveva parlato
per anni con una voce inespressiva, potrei dire computerizzata "La mia voce la
controllo continuamente, non la lascio mai andare"; ora aveva trovato la strada
di deflusso ad un affetto enorme che esprimeva, conformemente alla sua struttura
psichica, in modo parcellizzato ma molto intenso) Si respira quando si parla:
le frasi hanno un inizio ed una fine. E nonostante le pause il discorso rimane
unito, il discorso continua. Prima facevo di tutto per spezzare il discorso, per
non mantenerlo unito. Nella musica c'è un respiro interno che si impone.
Vorrei lasciarmi portare dove mi porta la musica...perché non lo capisco...dove
mi porta la vita...e nemmeno capisco di cosa ho paura: forse ho paura di lui.
Mi sa che lui non voleva essere continuato. Mio padre non ammetteva di dipendere,
come me, del resto. Rifaccio esattamente le cose che faceva questa faccia di cazzo,
ma ce l'avessi, almeno! Tutto ha un inizio ed una fine, le frasi musicali sono
come persone, un attore che si fa avanti, dice la sua battuta sulla scena, e si
ritira. Mi spaventa scoprire che si vive così...che la mia vita può
essere solo una battuta pronunciata ad un certo punto."
L'analizzato è
disorientato di fronte alla sua presa di coscienza ed a ragione; d'altronde non
è facile giungere alla visione dell'essenza della nostra esistenza: una
battuta fugace detta sul proscenio dell'universo. Spendiamo la nostra vita per
guadagnarci la possibilità di dirla compiutamente, quella battuta; chi
lo fa con rabbia, chi con rassegnazione, chi con violenza, chi con disonestà,
chi a denti stretti, ma pochi di noi riescono a rendersi conto che quella battuta,
che è la nostra vita, poco ci appartiene. Poiché, ed è questa
la tesi centrale del presente lavoro, non siamo altro che una sorta di amplificatori
di brillanza di un'emissione di Immagini che vaga nell'illusione dello spazio-tempo
servendosi di involucri.
Le Immagini che popolano i nostri involucri ontogenetici
presentano una doppia attività di persecuzione-protezione. Questo concetto
può sembrare strano, ma seguendo il materiale di questa analizzata potremo
farcene un'idea concreta.
L'analizzata è in analisi a ragione di una
sindrome grave a sfondo paranoico, parzialmente arginata da una condotta alcolomaniaca
parossistica. La sua vita è un girone dantesco: ciclicamente presenta il
vissuto paranoico del "Tutti mi vogliono male", il "nessuno mi capisce", e il
"E' tutta colpa loro" che spesso sfocia nell'abbandono alla crisi dipsomaniaca
che viene vissuta con vergogna e ulteriore abbattimento. Il nucleo che nutre l'appetenza
all'alcool è stato ben analizzato con un soddisfacente spurgo emozionale,
eppure, ciclicamente, questa giovane donna deve interpretare le sue crisi alcolomaniache.
Mi esprimo in questi termini perché ormai sembra che reciti una parte che
le è stata affidata e da cui non riesce ad affrancarsi.
Dopo che per
l'ennesima volta cerca di rieditare la sua ripetizione preferita, cioè
prendere il minimo pretesto reale o fantasmatico, ingigantirlo, gonfiare la mongolfiera
del romanzo paranoide, autocommiserarsi e andare via dalla seduta protestando
contro il mondo, riesce a trovare la possibilità di analizzare il suo comportamento.
Ascoltiamola:"Mi lascio prendere dall'autocommiserazione e forse è solo
una scusa per far arrivare qualcuno a farmi le coccole. Bisogna lottare per ogni
cosa...Prima volevo scappare a casa, autocommiserarmi e mettermi a bere. Non so
se per punire me o gli altri. Per dire " Per colpa vostra io bevo, perché
non mi capite, perché non mi fate le coccole " Ma francamente mi sono rotta
i coglioni di pensare a questa culla ! Dentro me c'è una grande attrice
stronza ed io sono la platea e continuo, mio malgrado a recitare una parte che
mi ha stancato. E mi convinco che le cose vanno storte solo a me. Sono assetata
di vendetta, vorrei che mia madre pagasse per tutto quello che mi ha fatto (l'analizzata
era stata abbandonata dalla madre naturale all'età di pochi mesi) Ho la
nausea di parlare di queste cose, eppure ne parlo ancora.Sono contenta di non
essere andata via questa volta. Ora che ci penso, quando decidevo di bere ero
totalmente ubriaca ancor prima di ingoiare il primo bicchiere. Facevo mio padre
" Attenzione: l'analizzata coglie di sfuggita una dinamica importante, il ruolo
di persecuzione- protezione dell'Immagine. Di fronte a situazioni che mettono
in contatto con il vuoto ci si rifugia, per automatismo reattivo, in una faccetta
dell'Immagine, o, per meglio dire, lo squilibrio energetico, determinato dal contatto
con il Vuoto, necessita della mobilizzazione di uno schermo protettivo che vincoli
l'Involucro. L'analizzata aveva iniziato la seduta con la considerazione che le
cose andavano molto meglio per lei essendosi tra l'altro resa conto per la prima
volta, che finalmente aveva la sua casa, dunque era libera dai vari "padroni"
persecutori-protettori; di fronte al mutamento di situazione, che le elimina i
limiti interni e dilata i confini delle sue potenzialità, si accoccola
di nuovo nella imago del padre ubriacone al cui cospetto riedita un vissuto persecutorio
che è al tempo stesso fonte di intensa sofferenza e rassicurante riferimento.
Fino a quando la signora non elaborerà compiutamente il distacco dal fantasma
di persecuzione-protezione del cattivo grembo materno che l'ha abbandonata per
accedere ad una dimensione adulta di libera solitudine, e fin quando non accetterà
l' ineluttabilità e relatività del proprio destino, difficilmente
potrà fare a meno di utilizzare il meccanismo proiettivo del rancore e
della protesta emarginante nei confronti dell'universo.
L'attività
delle immagini interne è incessante, e noi siamo gli esecutori di desideri
ancestrali che si riattivano soprattutto nel corso dell'attività onirica.
Tale situazione è ben descritta dalla frase ricorrente di ogni micropsicoanalisi:"Io
sto facendo la vita di qualcun'altro. La mia vita non è la mia". Oppure,
come si espresse in forma più colorita ed efficace un analizzato: "La mia
vita? Mi sento come se avessi un virus, come se non fosse colpa mia. Sono solo
un pupazzo in mano a qualcosa più forte di me. Non sono io che suono:c'è
qualcosa che mi suona!". D'altronde, gran parte del lavoro micropsicoanalitico
non è altro che un processo di attualizzazione dello psichismo umano.
Voyez la version française...