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La Vita: involucro vuoto
 
Borla, Roma, 1993 • In adozione presso la Cattedra di Psicologia Dinamica dell'Università di Torino
 

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La Vita involucro vuoto  

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Come inizia...

Avevamo da poco terminato una seduta di supervisione nel corso della quale il mio didatta aveva fatto alcune osservazioni sulle determinanti filogenetiche del disturbo psichico. Mi aveva invitato a porre attenzione ai particolari della storia del mio paziente che si ripetevano di generazione in generazione, a costituire come uno spartito ingiallito dal tempo, suonato da orchestre diverse e in tempi diversi, che acquisisce quella minima svisata che gli conferisce il dono dell'originalità, ma la cui essenziale struttura rimane inalterata. Passeggiavamo lentamente lungo il piccolo viale che lambiva la villetta del Professore. D'un tratto, rimanemmo entrambi catturati dalla visione di un vecchio uomo, che sedeva sulla soglia di un massiccio portone, con il viso dolcemente rischiarato dalla luce arancio del tramonto.
Non riuscivo a capire razionalmente cosa c'era che mi incuriosisse di quell'uomo. L'unica cosa che riuscii a notare fu la sua presenza totalmente inespressiva, ma non inquietante; oggi direi neutra. Il Professore, tirando con avidità una boccata delle sue sigarette fatte a mano con l'ormai introvabile "trinciato forte", lo guardò con discrezione, quindi rivolse il suo sguardo fermo dritto nei miei occhi e si limitò a dirmi: "Vede ? Siamo soltanto degli involucri".
L'osservazione bastò a dare una risposta al lavorio mentale che l'incontro aveva suscitato in me. Non avevo compreso, a livello logico, quello che il mio maestro aveva voluto dirmi, ma quella definizione si attagliava perfettamente a ciò che avevo sentito; d'altra parte non c'era dubbio alcuno che quella "cosa" che avevamo visto fosse nient'altro che un involucro.
Sarebbero dovuti passare anni di lavoro, ore ed ore ad ascoltare esistenze di molte persone prima che potessi elaborare compiutamente l'impatto affettivo che quella visione aveva determinato. Tornai a pensarci, diversi anni dopo, nell'atmosfera di indescrivibile vicinanza al vero, di una seduta lunga di quattro ore, mentre ascoltavo le associazioni di un analizzato. Questi era giunto in analisi avendo una percezione di se stesso e degli esseri umani come di meccanismi senza sentimenti: "C'è stato un periodo in cui pensavo alle persone come a macchine perfette, che possono intuire immediatamente tutto degli altri"; ora, ormai alla fine del lavoro micropsicoanalitico, così si esprimeva osservando una fotografia del padre: "L'altro giorno, studiando quella suonata, mi sono accorto che ero costretto a fare una cesura: evidentemente le frasi respirano da sé. E' qualcosa che non si può insegnare, sono come respiri; ho notato che a momenti faccio dei sospiri quando suono. Conoscevo una persona che parlava in modo piatto (l'analizzato aveva parlato per anni con una voce inespressiva, potrei dire computerizzata "La mia voce la controllo continuamente, non la lascio mai andare"; ora aveva trovato la strada di deflusso ad un affetto enorme che esprimeva, conformemente alla sua struttura psichica, in modo parcellizzato ma molto intenso) Si respira quando si parla: le frasi hanno un inizio ed una fine. E nonostante le pause il discorso rimane unito, il discorso continua. Prima facevo di tutto per spezzare il discorso, per non mantenerlo unito. Nella musica c'è un respiro interno che si impone. Vorrei lasciarmi portare dove mi porta la musica...perché non lo capisco...dove mi porta la vita...e nemmeno capisco di cosa ho paura: forse ho paura di lui. Mi sa che lui non voleva essere continuato. Mio padre non ammetteva di dipendere, come me, del resto. Rifaccio esattamente le cose che faceva questa faccia di cazzo, ma ce l'avessi, almeno! Tutto ha un inizio ed una fine, le frasi musicali sono come persone, un attore che si fa avanti, dice la sua battuta sulla scena, e si ritira. Mi spaventa scoprire che si vive così...che la mia vita può essere solo una battuta pronunciata ad un certo punto."
L'analizzato è disorientato di fronte alla sua presa di coscienza ed a ragione; d'altronde non è facile giungere alla visione dell'essenza della nostra esistenza: una battuta fugace detta sul proscenio dell'universo. Spendiamo la nostra vita per guadagnarci la possibilità di dirla compiutamente, quella battuta; chi lo fa con rabbia, chi con rassegnazione, chi con violenza, chi con disonestà, chi a denti stretti, ma pochi di noi riescono a rendersi conto che quella battuta, che è la nostra vita, poco ci appartiene. Poiché, ed è questa la tesi centrale del presente lavoro, non siamo altro che una sorta di amplificatori di brillanza di un'emissione di Immagini che vaga nell'illusione dello spazio-tempo servendosi di involucri.
Le Immagini che popolano i nostri involucri ontogenetici presentano una doppia attività di persecuzione-protezione. Questo concetto può sembrare strano, ma seguendo il materiale di questa analizzata potremo farcene un'idea concreta.
L'analizzata è in analisi a ragione di una sindrome grave a sfondo paranoico, parzialmente arginata da una condotta alcolomaniaca parossistica. La sua vita è un girone dantesco: ciclicamente presenta il vissuto paranoico del "Tutti mi vogliono male", il "nessuno mi capisce", e il "E' tutta colpa loro" che spesso sfocia nell'abbandono alla crisi dipsomaniaca che viene vissuta con vergogna e ulteriore abbattimento. Il nucleo che nutre l'appetenza all'alcool è stato ben analizzato con un soddisfacente spurgo emozionale, eppure, ciclicamente, questa giovane donna deve interpretare le sue crisi alcolomaniache. Mi esprimo in questi termini perché ormai sembra che reciti una parte che le è stata affidata e da cui non riesce ad affrancarsi.
Dopo che per l'ennesima volta cerca di rieditare la sua ripetizione preferita, cioè prendere il minimo pretesto reale o fantasmatico, ingigantirlo, gonfiare la mongolfiera del romanzo paranoide, autocommiserarsi e andare via dalla seduta protestando contro il mondo, riesce a trovare la possibilità di analizzare il suo comportamento.
Ascoltiamola:"Mi lascio prendere dall'autocommiserazione e forse è solo una scusa per far arrivare qualcuno a farmi le coccole. Bisogna lottare per ogni cosa...Prima volevo scappare a casa, autocommiserarmi e mettermi a bere. Non so se per punire me o gli altri. Per dire " Per colpa vostra io bevo, perché non mi capite, perché non mi fate le coccole " Ma francamente mi sono rotta i coglioni di pensare a questa culla ! Dentro me c'è una grande attrice stronza ed io sono la platea e continuo, mio malgrado a recitare una parte che mi ha stancato. E mi convinco che le cose vanno storte solo a me. Sono assetata di vendetta, vorrei che mia madre pagasse per tutto quello che mi ha fatto (l'analizzata era stata abbandonata dalla madre naturale all'età di pochi mesi) Ho la nausea di parlare di queste cose, eppure ne parlo ancora.Sono contenta di non essere andata via questa volta. Ora che ci penso, quando decidevo di bere ero totalmente ubriaca ancor prima di ingoiare il primo bicchiere. Facevo mio padre " Attenzione: l'analizzata coglie di sfuggita una dinamica importante, il ruolo di persecuzione- protezione dell'Immagine. Di fronte a situazioni che mettono in contatto con il vuoto ci si rifugia, per automatismo reattivo, in una faccetta dell'Immagine, o, per meglio dire, lo squilibrio energetico, determinato dal contatto con il Vuoto, necessita della mobilizzazione di uno schermo protettivo che vincoli l'Involucro. L'analizzata aveva iniziato la seduta con la considerazione che le cose andavano molto meglio per lei essendosi tra l'altro resa conto per la prima volta, che finalmente aveva la sua casa, dunque era libera dai vari "padroni" persecutori-protettori; di fronte al mutamento di situazione, che le elimina i limiti interni e dilata i confini delle sue potenzialità, si accoccola di nuovo nella imago del padre ubriacone al cui cospetto riedita un vissuto persecutorio che è al tempo stesso fonte di intensa sofferenza e rassicurante riferimento.
Fino a quando la signora non elaborerà compiutamente il distacco dal fantasma di persecuzione-protezione del cattivo grembo materno che l'ha abbandonata per accedere ad una dimensione adulta di libera solitudine, e fin quando non accetterà l' ineluttabilità e relatività del proprio destino, difficilmente potrà fare a meno di utilizzare il meccanismo proiettivo del rancore e della protesta emarginante nei confronti dell'universo.
L'attività delle immagini interne è incessante, e noi siamo gli esecutori di desideri ancestrali che si riattivano soprattutto nel corso dell'attività onirica. Tale situazione è ben descritta dalla frase ricorrente di ogni micropsicoanalisi:"Io sto facendo la vita di qualcun'altro. La mia vita non è la mia". Oppure, come si espresse in forma più colorita ed efficace un analizzato: "La mia vita? Mi sento come se avessi un virus, come se non fosse colpa mia. Sono solo un pupazzo in mano a qualcosa più forte di me. Non sono io che suono:c'è qualcosa che mi suona!". D'altronde, gran parte del lavoro micropsicoanalitico non è altro che un processo di attualizzazione dello psichismo umano.

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